I VENETI DI MONTAGNA CHE PARLANO UN PO’ DI CELTICO
Di Anna Renda
Meglio lunga, tonica o turbata? Alla francese o alla veneta? Non è la réclâme di una bibita né una nuova maniera di baciare. Si tratta della vocale. Larga o stretta che sia, muta o extradinamica, quando si parla di linguaggio, in particolare di dialetti veneti, la vocale è tutto. L’accento è la sua forza, insieme caratterizzano una lingua, la rendono musicale o dura. La differenza che c’è tra i dialetti veneti di pianura e quelli di montagna, tra la destra e la sinistra Piave. Abbondano in vocali i primi, vocali allungate, ponti sopra consonanti soppresse (fratello diventa fradèeo e il suo diminutivo è fradeéto), tanto da conferire al linguaggio un che di femmineo, una cadenza cantilenante. Tendono invece ad eliminarle i secondi, specialmente a fine parola (cosi fratello/ino fanno fradèl e fradelét) e assumono un tono secco, quasi brusco. Differenze che dipendono dal sostrato etnico. Cioè da quanto riuscirono i veneti a mantenere della lingua originaria paleoveneta e quanto in profondità riusci a penetrare il linguaggio dei celti (quelli che i Romani chiamavano Galli).
Il glottologo Giovanni Màfera, allievo del grande linguista Clemente Merlo, non ha dubbi: nel Veneto di pianura i Galli poterono costituire soltanto un superstrato ma nelle zone montuose la loro influenza fu più forte.
La teoria emerge da una trentina di brevi interventi che lo studioso trevigiano ha riunito e recentemente pubblicato con il titolo Saggi minimi di dialettologia veneta (Piazza Editore, pp. 160, euro 12,00). La pubblicazione comprende una sezione specifica, curata dallo storico Giovanni Roman, dedicata all’origine etimologica di alcuni toponomi trevigiani tra cui antiga, carubio, chiodo, dosson, ghirada, pero, la strada dei tappi, eccetera.
Con un linguaggio agile e accattivante, Màfera mescola considerazioni tecniche sull’evoluzione morfologica e fonetica degli idiomi nostrani alle più sfiziose curiosità su termini e modi di dire squisitamente veneti. Perché non è una volgarità andar in vaca? Quel è la vera storia della Seneca svenata? Da dove arriva quel freschin di cui sa alcune volte il pesce? Chi esclama àreo ciò! sa che usa un fossile linguistico?
Qua e là il discorso si fa intrigante. Tra i termini dialettali ci sono dei trans: come mai alcune parole di genere maschile, in dialetto cambiano al femminile? Si parla quindi di sibilanti, palatali e interdentali. E di una consonante irrequieta, la r, che vaga, si sposta, apparentemente senza motivo, come in ‘comprare” o in ‘dentro” che diventano crompàr e drento, in Tarvisium che evolve in Treviso. Màfera ci ricorda che la toponomastica rende omaggio ai popoli «barbari» nostri antenati (i Sàrmati a Sarmede, gli Alani ad Alano, i Goti a Godego e a Godega S. Urbano, ecc.). Ma tra i toponimi associati agli animali è Lovadina e il suo richiamo al termine ‘lupo” (lupus in latino e lykos in greco) che spiega come ‘lupanàre”, ‘lupàra”, ‘liceo” e persino il ‘Louvre” abbiano la medesima derivazione. Alcuni saggetti infine propongono l’origine etimologica di cognomi veneti come Ghedin, Ragonese. e altri.
Si dice che i dialetti stanno morendo. Ma basta avvicinarsi appena, e imparare a conoscerli, per amarli, per quell’energia, originalità e vita che sapevano esprimere. Onore e merito a Màfera che tutto questo l’ha saputo dire, fuor di retorica.
Anna Renda
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