LA SIFILIDE E DUE STUDIOSI VENETI: GIROLAMO FRACASTORO E GABRIELE FALLOPPIO

Girolamo Fracastoro mostra al pastore Sifilo e al cacciatore Ilceo una statua di Venere per metterli in guardia dal pericolo di infezione da sifilide. Incisione di Jan Sadeler I, 1588/1595.
L’AMICO veronese Lorenzo Magnabosco mi ha segnalato un interessante articolo sulle pandemie. Mi soffermo sul paragrafo che parla della sifilide, male incurabile o quasi fino poco tempo fa perché vi compaiono i nomi di due veneti illustri. Il primo, Girolamo Fracastoro, è un veronese, che fu un genio eclettico: è stato un medico, filosofo, astronomo, geografo e letterato . Egli è considerato uno dei più grandi medici di tutti i tempi. Nato nel 1478, a Verona morì l’8 agosto 1553 il suo genio fiorì grazie Università degli Studi di Padova, come quello di Gabriele Falloppio (le tube di Falloppio vi dicono qualcosa?) che è stato a sua volta un anatomista, botanico, medico, naturalista e accademico veneto. Gabriele Falloppio o Falloppia, nato a Modena, nel 1523 circa – morto a Padova, 9 ottobre 1562 dove insegnò nella prestigiosa università). Questo per farvi un’idea di cos’era lo stato veneto anche nel campo scientifico (fino all’ultimo dei suoi giorni di indipendenza).
Anche la sifilide, la prima pandemia europea che scoppiò fra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento per cause ancora non ben chiare, merita una riflessione. Di certo, si sa che questa nuova malattia fu osservata per la prima volta in coincidenza con l’invasione dell’esercito del re francese Carlo VIII in Italia, il quale reclamava diritti dinastici sul Regno di Napoli. L’epidemia si diffuse in tutta Europa, sconvolgendo la coscienza delle popolazioni per i suoi effetti devastanti sul corpo.
Con la sifilide emerse per la prima volta, grazie a un medico veronese che studiò a Padova, Girolamo Fracastoro, l’idea di “contagio”, cioè di trasmissione dell’infezione da persona a persona. Fu chiaro sin da subito che si trattava di una malattia venerea, causata cioè dal contatto sessuale, che portò alla riscoperta, in occidente, dell’uso di un proto-preservativo, introdotto dal docente padovano Gabriele Falloppio.
Come per la peste, anche in questo caso fu chiaro che fosse necessario l’isolamento dei malati per limitare il diffondersi dell’epidemia. Nacquero, così, i cosiddetti ospedali degli “incurabili”, dove i malati dovevano obbligatoriamente venir confinati. Allo stesso modo, la nuova malattia fu accompagnata dallo stigma sociale, forse ancor di più rispetto alla peste. Chi si ammalava, infatti, aveva compiuto, con ogni probabilità, atti “impuri”, cioè la frequentazione di prostitute, sicché veniva isolato e abbandonato dalle proprie stesse famiglie. Da notare che si era in epoca di controriforma. La chiesa cattolica, dunque, si adoperò per aiutare e sostenere questa vera e propria nuova categoria di reietti sociali: la compagnia del divino amore in particolare si occupò di favorire la costruzione di nuovi ospedali per gli incurabili in tutto il territorio italiano. Lo stigma sociale si diffuse non solo a livello individuale, ma anche fra popoli diversi. Gli italiani chiamarono la sifilide “mal francese”, sostenendo, con ciò, che fosse stata portata in Italia dai transalpini. I francesi, a loro volta, rifiutarono questa attribuzione ignominiosa e la chiamarono “mal di Napoli”. Allo stesso modo, i cristiani la definirono “mal orientale”; gli asiatici “male dei Portoghesi”; i portoghesi “male spagnolo”. È un atteggiamento, questo, che in qualche modo riecheggia anche nelle cronache attuali, dato che ogni Stato sembra guardare ai propri vicini come fonte del contagio. Infine, la sifilide fu caratterizzata, in misura forse maggiore rispetto alla peste – nei confronti della quale serpeggiava una sorta di implicita rassegnazione – dalla ricerca di una cura medica. Mercurio e legno di guaiaco furono le prime cure sperimentate, ma senza particolare successo. Anzi, il mercurio era, sostanzialmente, tossico. Il primo farmaco efficace fu l’arsenobenzolo (il noto Salvarsan) introdotto da Paul Ehrlich nel 1910, grazie al quale vinse il Nobel. Ma la cura definitiva fu la penicillina, scoperta da Alexander Fleming nel 1928 e prodotta su scala industriale a partire dagli inizi del 1940.
il virgolettato è a firma di Fabio Zampieri dell’università di Padova.