L’INFAMIA DELLA LAPIDE COL NOME DEL CONDANNATO, LADRO DI DENARO PUBBLICO OD OMICIDA
Sunto da “Giustizia veneta” di Edoardo Rubini
L’erezione della lapide marmorea d’infamia era invece una costumanza radicata preso le nostre magistrature, più inclini a ricordare dove gli uomini avevano mancato, specie se gravati da responsabilità pubbliche, piuttosto che a celebrarne i meriti.
Una condotta irreprensibile indirizzata al più alto senso del dovere era considerata ordinaria amministrazione dalla mentalità di allora, mentre i gravi demeriti dei pubblici ufficiali colti in fallo, dovevano essere additati al pubblico ludibrio, a perenne monito contro chi nel futuro fosse sfiorato dall’idea di ricascarci.
Ancor oggi, i visitatori di Palazzo Ducale possono leggere varie lapidi del genere, affisse nel corridoio d’ingresso della porta del formento che ricordano atti di viltà in guerra o ammanchi di cassa. Questa regola vigeva anche nella Terraferma, naturalmente: i padovani possono leggere una lapide che ricorda la condanna esemplare di “biri o zaffi” ovvero “poliziotti” dell’epoca, che abusarono del loro potere uccidendo due studenti della locale, prestigiosa università, dove tra l’atro si formava la classe dirigente veneta.
Il 27 dicembre 1723, dopo l’esecuzione con impiccagione dei rei, i Decemviri deliberarono di murare una lapide sulla facciata della chiesetta di San Clemente, in Piazza dei Signori, che recita così:
Per il gran atroce delitto commesso da diversi sbiri li 15 febraro 1722 contro alcuni scolari nell’interno di questa abitazione furono dal Cons.jo dei X al 24 settembre 1723 tutti li sbiri rei al N.o di 12,a misura delle loro differenti rillevate colpe, condannati rispettivamente al patibolo della forca, alla gallea et all’oscuro carcere (si intendono i sotterranei de Piombi ) a tempo et in vita con severissima condanna, il che resti in perpetua memoria, de la Pub.ca Giustizia et della publica costante protetione verso la prediletta Insigne Università dello Studio di Padova.
Ma i provvedimenti potevano essere ancor più severe, verso i condannati rei di crimini efferati: si arrivava infati alla demolizione della casa stessa del reo,come capitò per l’ultimo condannato a morte della storia della Serenissima. Nel 1790 infatti tale Costantino Lucchese, con dei complici, uccise a tradimento il Podestà locale. eseguita la condanna a morte le loro case furono rade al suolo nel cntro del paese di Caneva fu posta una colonna d’infamia, con questa iscrizione:
Pietro Lucchese detto Conte, fu impiccato in Venezia per sentenza dell’Eccellentissmo Cons.o dei X del dì 19 s.mbre 1791 perché reo dell’interfezione commessa li 8 dicembre 1790 dell’allora Podestà di Caneva.
Ricordiamo dunque, in chiusura, quanto portava scritto il libro del Leone del Traù “gli ingiusti siano puniti e il seme degli empi perirà” (iniusti punientur, semen impiorum peribit).
Evito impietosi paragoni con la giustizia dei tribunali italiani odierni.