INQUISITORI SOPRA IL MORTO
di Andrew Calzavara
Uno dei punti che, unanimemente, vengono riconosciuti alla Serenissima Repubblica era l’estremo bilanciamento dei poteri. Esisteva un complesso sistema di Magistrature, ciascuna con un compito preciso di controllo e nessuna lasciata senza un controllore.
L’unica persona che formalmente non aveva controllori era il Doge, i cui poteri però erano, al di la dalla apparenza, estremamente limitati. Questi poteri erano stati inoltre progressivamente circoscritti, di elezione in elezione, dalle cosiddette Promissioni Dogali, di fatto una serie di impegni che il Doge assumeva all’atto della sua elezione. Le Promissioni apparirono nel XII secolo e si ampliarono costantemente, fino a lasciare al Doge un margine di azione limitato e un potere puramente formale.
Se questo non fosse stato abbastanza, venne introdotto dopo la morte di Francesco Foscari, all’inizio del XV secolo, anche l’istituto degli “inquisitori sopra il morto”. In sostanza, senza permettersi di investigare il Doge da vivo, alla sua morte, una apposita Magistratura era incaricata dell’esame post mortem, cioè di indagare sul “rendiconto” finale del dogado. Gli inquisitori del Doge defunto spulciavano gli atti del deceduto, per constatare la legittimità delle spese personali fatte e delle entrate percepite, e se trovavano irregolarità toccava agli eredi sopportarne le conseguenze.
Basti pensare ad un grande Doge come Leonardo Loredan, anima della resistenza di Venezia contro quasi tutta l’Europa confederata all’epoca della lega di Cambrai, che ai primi del ‘500 ebbe un inchiesta post mortem durata più di due anni, e conclusa con l’imposizione agli eredi di restituire 2700 ducati, percepiti secondo gli inquisitori, illegittimamente durante il suo periodo dogale.
Questo avvenne anche se Doge e parenti avevano versato contributi volontari per le spese di guerra, in quanto si trattavano di spese che non cancellavano l’illegalità constatata
Se la Storia non si ripete, certamente può insegnare molto e un confronto con i tempi attuali risulta veramente impietoso.
E’ vero, il confronto con la situazione politica attuale è impietoso: siamo davanti ad un’immagine al negativo, Repubblica Veneta e Repubblica Italiana rappresentano modelli agli antipodi. Si noti che la prima era ARISTOCRAZIA, cioè il tipo di governo impostato secondo i dettami di Platone e Aristotele (che secondo la tradizione classico-cristiana era il migliore possibile). La falsa democrazia odierna è in realtà una OLIGARCHIA, perché si basa sui diritti umani e sul contratto sociale, dogmi teorizzati dagli illuministi-liberali (che in teoria garantiscono tutto a tutti, in realtà creano un sistema sotto il controllo di camorre occulte).
Nello specifico, però, non si può dire che l’unica persona che formalmente non aveva controllori era il Doge. Se si studia la Costituzione di Venezia su testi specialistici, ci si accorge che il Doge era coadiuvato in ogni atto dal Minor Consiglio, cioè dai sei Consiglieri Dogali con i quali esercitava ogni funzione in forma collegiale. Con questi, inoltre, formava l’ufficio di presidenza di tutte le maggiori magistrature (Maggior Consiglio, Consiglio di Dieci, Senato, Pien Collegio, Signoria).
Questa stretta collaborazione dava luogo ad uno strettissimo controllo su ogni atto e sull’organo stesso, che talora diede luogo a richiami sonori, dei quali nessun Sovrano in quelle epoche soffrì. Proprio dalle promissioni dogali si evincono obblighi stringenti, quali il divieto di ricevere ambasciatori o incontrare esponenti politici di qualsivoglia natura da soli (senza la presenza e l’assenso di tutti gli altri); altrettanto si doveva fare per aprire la posta, inoltre era vietato allontanarsi dalla città senza preavviso e relativo assenso quasi unanime.
La totale rimozione della storia veneta voluta e gestita dallo stato unitario italiano, nonché l’ignoranza che ne è derivata in materia di istituzioni venete (la vera scienza storica in materia fu sommersa dalla pubblicistica giacobina e poi fu soffocata dalla letteratura romantica) ha spesso suggerito un’immagine favolistica del Doge ricchissimo che governava in modo autoritario e paternalistico, ad arbitrio.
Per reagire a questa impostazione favolosa e suggestiva, si è quindi reagito, da parte di tanti autori, anche a livello universitario, con l’errore opposto, cioè si è voluto dipingere i poteri del Doge come così limitati da lasciargli un potere puramente formale.
L’attento studio della Veneta Storia dimostra il contrario.
Il Doge era certo figura maestosa, che esprimeva nella sua magnificenza anche un potere soprannaturale di origine divina (individuata in San Marco); questo potere era espresso in pratica dall’elezione che avveniva in Maggior Consiglio e consisteva nella Sovranità di cui era titolare la Nazione nel complesso.
Il Doge non di meno rappresentava il Principe della Nazione in tutti i sensi: il suo prestigio era enorme, le sue attribuzioni contemplavano l’intervento diretto nell’attività istituzionale e politica, pur entro i limiti definiti nelle Promissioni e consolidati nella consuetudine.
Prova di tutto ciò furono gli interventi decisivi, svolti con potenti orazioni e vigorosi provvedimenti proposti agli organi di governo (potere di impulso) che parecchi Dogi produssero anche in frangenti drammatici e cruciali. Da ultimo, non sfuggirà che alcuni di loro addirittura ebbero l’ardore necessario per condurre le truppe sul campo di battaglia (intervento estremo che per lo più si tendeva ad evitare per salvaguardare la sua sicurezza, che non di meno fu prodotto più volte in epoche diverse).
Per la conoscenza del diritto veneto si consiglia:
http://www.europaveneta.org/img/areadialogo/Giustizia_Veneta.jpg