La pellagra, altro regalo italiano. Tutto dimostrato, nero su bianco.
di Edoardo Rubini
LETTERA (prima parte) DI EDOARDO RUBINI (controfirmata da me, ma il merito è suo ) AL GAZZETTINO, dopo che un “professore” italiano veneto, col complesso di Norimberga (che porta ad amare i propri aguzzini, e a difenderli), affermò doversi imputare alla Serenissima pure la pellagra.
La pellagra, pur nata nel ‘600, esplose in realtà nell’800, con picchi mostruosi durante la fine del secolo. RACCOMANDO LA LETTURA. DA CONSERVARE.
…Cominciamo con il bollettino d’informazione medica“Dialogo sui farmaci” pubblicata a Verona dall’ASL 20.
Nel numero 1 (genn.–febb. 1998) la rivista pubblicagli studi del grandissimo economista di fine ‘800
Angelo Messedaglia (le cui carte inedite sonocustodite preso la Biblioteca Civica di Verona).
Secondo Messedaglia, i primi casi di pellagra sono stati descritti compiutamente attorno al 1750. Si sa
però che questa nuova malattia era presente in forma sporadica nel Veneto già dalla fine del ‘600. Nel
1776 i Provveditori alla Sanità della Repubblica di Venezia assunsero importanti provvedimenti per
prevenirne la diffusione e ci resta un proclama nel quale rilevavano “li perniziosi effetti che possono
derivare alla salute dei più poveri abitanti, e specialmente dei villici del Polesine, Padovano e
Veronese dal cattivo alimento dei sorghi turchi…”.
Solo nell’Ottocento, però, il morbo si diffonde in modo spaventoso e raggiunge il suo acme nel 1881, con
l’unità d’Italia, per declinare lentamente dopo la Grande Guerra. Nel 1904 i casi accertati furono
46.984; nel 1910, 33.861. L’incidenza della pellagra non si distribuiva in modo omogeneo in Italia, ma si
concentrava sulla Pianura Padana Orientale: nel 1881,a Verona, con i suoi 2.567 casi, risultava colpito il
19 per 1000 della popolazione rurale; a Vicenza il 23,2 per 1000 della popolazione rurale, a Belluno il
21,2 per 1000, a Udine il 21,4;a Treviso il 32,2, a Venezia il 34,6, a Rovigo il 37, a Padova 57,4 per
1000 (fonte: La pellagra in Italia, 1879. Annali di agricoltura, n. 18. Ministero di agricoltura,
industria e commercio).
La malattia non trae origine dall’introduzione della coltura del mais nelle nostre campagne, iniziata verso
la metà del 1500 e diffusa poi soprattutto ad opera della Repubblica Veneta. Comincia, invece, quando
tale coltura assume un ruolo dominante in campo agricolo, tanto da soppiantare tutti gli altri tipi di
cereali tradizionalmente coltivati.
La polenta diventa quasi l’unico alimento di cui i contadini si
cibano, costretti al più stretto monofagismo da un crescente e progressivo grado di immiserimento.
Si ricorda che in seguito al grosso spostamento di capitali verso le campagne – diventato tumultuoso
negli anni compresi tra l’unità d’Italia e la Grande Guerra – si passa da una economia agricola volta a soddisfare il fabbisogno del contadino e della sua famiglia, ad un’altra in cui il prodotto della terra
diviene merce da immettere sul mercato.
Si assiste così ad una concentrazione delle proprietà e dei mezzi di produzione che comporta l’espropriazione, ai danni di centinaia di migliaia di contadini, dei campi che avevano da sempre lavorato. L’introduzione di nuovi
strumenti tecnici e di irrigazione fu uno dei mezzi più potenti di espropriazione di piccoli proprietari e
di mezzadri, specie nella valle padana: chi non riusciva ad attrezzarsi in maniera competitiva veniva
piegato dall’usura o dal mancato pagamento dei censi.
La pellagra colpisce in modo prevalente, le popolazioni contadine delle terre più fertili d’Italia
(come la pianura padana) che, in teoria, avrebbero dovuto essere le più idonee a nutrire i suoi abitanti.
Sidney Sonnino, nel 1877, scriveva: “Il villano di Sicilia mangia pane di farina di grano e, salvo i casi
di miseria, si nutre a sufficienza, mentre il contadino lombardo mangia quasi esclusivamente
granturco e soffre di fame fisiologica anche quando abbia il corpo pieno”.
Morire di fame e di pellagra
era la principale opzione concessa ai contadini nel periodo successivo all’unità d’Italia; ne esisteva
un’altra importante: scappare. Fra il 1876 e il 1901 emigrarono infatti oltreoceano 1.904.719 abitanti del
Veneto, tanto da risultare la regione dell’Italia settentrionale che diede il più grosso contributo al
fenomeno migratorio.
Tutto quanto pubblicato dalla rivista “Dialogo sui farmaci” combacia con gli altri studi seri condotti
ai massimi livelli sullo sviluppo dell’economia e dell’agricoltura nei lunghi secoli in cui fummo retti
dal governo di San Marco e del collasso generale seguito all’annessione della nostra terra al dominio
straniero.
Grazie Milo, hai sollevato uno degli argomenti tabù dell’unitarismo italico. Sotto segnalo un ottimo studio specialistico che conferma quanto sopra sostenuto: dai primi casi sporadici di pellagra nel ‘600-‘700 (registrati a livello scientifico e oggetto di provvedimenti da parte della Veneta Serenissima Repubblica), si passa ad un indurimento delle condizioni di vita nelle campagne con l’occupazione austriaca. Ma il disastro avviene solo dopo l’unificazione delle Venezie al Regno d’Italia, nel 1866. Sono i decenni dell’ultimo Ottocento quelli dell’esplosione del male, dovuto a miseria e denutrizione.
Nei fatti, l’annessione del Veneto all’Italia ha portato la gente a morire di fame.
Parli di Norimberga e in effetti ci vorrebbe un tribunale internazionale che giudicasse i crimini dello stato italiano: morti a decine, centinaia di migliaia di malati, privazioni e sofferenze indicibili, una tassazione a livello criminale, infine la deportazione di massa in altri Continenti, che sradicò milioni di Veneti dalla loro Patria.
Tutto ciò si dovette alla politica antipopolare e spietata dei liberali italiani, che per i suoi effetti può essere paragonata ad un bombardamento nucleare a tappeto sulla Terra Veneta.
Hai ragione, i Veneti di oggi soffrono della sindrome di Stoccolma, la dipendenza psicologica in cui cadono le vittime di varie violenze nei confronti dei loro aguzzini.
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