di Antonia dei Todeschi.
Tito Livio nasce a Padova (Patavium) nel 59 avanti Cristo da una famiglia della ricca borghesia della città. A 24 anni si reca nella Roma di Augusto ma non ama frequentare le riunioni culturali dell’ Urbe, e per questo motivo verrà guardato con un certo snobbismo dalla casta romana.
I pettegolezzi su di lui si diffondono nei
salotti frequentati da Orazio, da Virgilio e dal facoltoso sponsor dell’ epoca: Mecenate. Tra questi, un certo Asinio Pollione diffonde la voce che malgrado Livio sia un valente storico, conserva un che di provinciale che identifica nella parola “patavinitas quendam” cioè una certa padovanità che pare si rifletta anche nella cadenza, già allora, evidentemente,
riconoscibilmente veneta.
Livio non se ne risente perché tiene in modo particolare alle sue radici e per lui “patavinitas” significa attaccamento ai valori di fondo come la fedeltà alle tradizioni, l integrità mantenuta nel tempo e la gelosa custodia della sua identità veneta. Scelta azzardata e controcorrente in una Roma segnata dai sostenitori e fans delle nuove mode venute dall’Oriente.
Nell ultima fase della sua vita Tito Livio ritorna nella sua città natale dove muore nel 17 dopo Cristo lasciando un opera che rappresenta la esaltazione etica religiosa e patriottica ormai persa di Roma: “Ab urbe condita”, si intitolerà la storia della città dalla fondazione e sarà composta da ben 142 libri di cui solo 35 giunti ai nostri giorni.
Altri Veneti dell’antichità romana mostrarono coraggio e coerenza nel mantenersi ancora legati ai valori e alle tradizioni venete lo si può capire raccontando un episodio accaduto nel 42, AD a Cecina Peto, senatore padovano entrato in contrasto con l’imperatore Claudio succube della moglie Messalina. Quando da Roma gli arriva l’ordine di adeguarsi od uccidersi, non ha dubbi sulla scelta. Non solo: viene preceduto da sua moglie Arria che immerge il pugnale nel petto, poi lo estrae e lo porge allo sposo con una frase passata alla storia grazie a Marziale: “Non duole”.
Ventiquattro anni dopo , nel 66, un suo parente,
Trasea Peto, filosofo stoico e membro del Senato,
ne ripercorre la strada, per non essere costretto a tributare particolari onori a Nerone da cui ha già preso pubblicamente le distanze. Col sangue che gli sgorga dalle vene propone un brindisi alla libertà:
“Libamus Iovi liberatori!”, Brindiamo a Giove liberatore!!!
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