1838: IL BALCANICO CHE NON VOLEVA LASCIARE IL FONTEGO DEI TURCHI
Testo Conferenza di Prof. Massimo Tomasutti - Venezia 18/10/2015
“Fontego esser stato prima de Pesaro, po’ de Duca de Ferrara, po’ de Priuli, po’ de Pesaro, po’ de Manin. Ma San Marco aver dato fontego per casa dè turchi, e mi voler star in fontego”. Così argomentava nel 1838, a strenua difesa della sua permanenza nel Fontego dei Turchi, l’ultimo mercante turco presente a Venezia Sadok Drisdi.
La congiuntura internazionale ed il cambiato quadro geopolitico europeo avevano ormai decretato la chiusura del Fontego ma Drisdi lottò strenuamente, con tutte le sue forze, per far prevalere quello che riteneva ancora essere un suo ‘diritto’: restare a vivere nel ‘serenissimo’ Fontego dei Turchi. Le parole di Sadok Drisdi, turco balcanico, costituiscono, tuttavia, ancor’oggi un lascito storico e simbolico immenso, testimoniante il grandissimo valore di quella Civiltà Marciana con cui il suo Impero e la sua comunità avevano intessuto lunghissime relazioni.
Certo, Venezia ebbe tanti scontri, difficoltà di rapporti politici anche gravi con la Sublime Porta ma pure intrattenne una frequentazione reciproca con il Turco reciprocamente assai fruttifera in termini commerciali e diplomatici. Città certamente “aperta” la Venezia Serenissima per le ‘nationi’ foreste compresa quella turchesca. E questo non perché – sia estremamente chiaro -, era “buona” o “buonista”.
Sono più che sufficienti i numerosi documenti d’archivio che testimoniano che chi al tempo infrangeva la Legge – veneziano o foresto che fosse -, “pagava” senza tanti se o tanti ma. Alcuni ‘todeschi’ furono messi in prigione perché avevano fatto chiasso durante la Messa Grande in San Marco e pure un albanese che aveva inciso un banco della Chiesa di Santa Maria Formosa con un coltellino.
Venezia, invece, era “aperta” per ragioni di trafego (commercio) e della sua ‘convenienza’. Campione indiscussa della Fede la Serenissima contro la Mezzaluna nelle acque delle Curzolari (Lepanto) quel memorabile 7 ottobre 1571. Un trionfo che tuttavia non le fa recuperare l’agognato Regno di Cipro, perso definitivamente due anni dopo con i discussi accordi di pace del 1573. Ma nel frattempo nemmeno lontanamente espulsi dalla città i tanti mercanti turchi presenti. E’ vero: all’inizio del conflitto furono momentaneamente ‘trattenuti’ in Laguna ma ciò fu dovuto come risposta ad un eguale trattamento riservato dal Sultano ai mercanti veneti presenti nell’Impero unitamente al loro Bailo Marcantonio Barbaro. Ma poi, con la ripresa dei rapporti diplomatici infittita la presenza dei mercanti della Porta nel mercato rialtino e tuttavia non senza alcuni atti d’ostilità nei loro confronti da parte del popolo veneziano.
Puntuale e severo, a questo punto, l’intervento nell’agosto del 1594 delle Autorità marciane (i Provveditori de Comun): “che (i turchi) possino vivere et negotiar quietamente et con sodisfattione come hanno fatto fin hora”. E’ il trafego (negotio) a determinare l’ospitalità verso i turchi e a questo deve sottomettersi l’intera ragion di Stato. Una “produzione di Civiltà” che vale reciprocamente e sottoposta alle inderogabili leggi di Stato.
Ed infatti il Fontego, dove dal 1621 la ‘natione turchesca’ trova ospitalità, è altrettanto rigorosamente “disciplinato”: assolutamente vietato introdurre donne, bambini ed armi, tutti i mercanti sudditi della Porta devono obbligatoriamente rientrare per la notte, tutte le loro merci devono essere lì obbligatoriamente stoccate, sono tenuti a versare regolarmente l’affitto e le loro eventuali controversie commerciali con la comunità veneziana sono sottoposte all’inappellabile giudizio dei Cinque Savi alla Mercanzia.
Ma c’è – importantissima – la “contropartita”: il Fontego dispone di una piccola Moschea ad uso della comunità musulmana ospitata e dispone di ampi locali e bagni (hamman) che fanno sì che il mercante turco – come pure le altre ‘nationi’ presenti ed operanti in Città – non sia e si senti “un fuori luogo” ma che, al contrario, si senti “nel luogo”. Insomma, la Serenissima disponeva di una concezione politica, urbana e sociale che sapeva benissimo distinguere i ‘foresti’ (con cui fare buoni affari e possibili scambi di Civiltà) dai ‘foresti’. Per quest’ultimi aveva disposto dei ‘luoghi’ (Fondaci e Ghetto ebraico) che fungevano da efficacissimi mediatori – “filtri” – tra identità comunitarie diverse.
La ‘convenienza’ era reciproca.
Tratto comunque caratterizzante della Civiltà marciana questo ‘strano’ rapporto con l’ostile ed infedele Turco. Ostile? Certo quando in “gioco” ci sono interessi geopolitici concreti, meno ostile (anzi) quando, invece, con esso si può “co-esistere” convenientemente e pragmaticamente. E tuttavia – sia ben chiaro -, il tutto all’insegna dell’irriducibile tradizione morale e religiosa veneziana; che il Turco non s’azzardi: mai Venezia sarebbe scesa ad alcun compromesso su questo terreno. Buon testimone il disgraziato ed eroico Marc’Antonio Bragadin a Famagosta (Lalà Pascià: “fatti musulmano e avrai la vita salva”, invito vano …).
Eppure …. eppure nel 1717 esce una sorta di libro fatto di vedute, “Il Gran Teatro di Venezia”. Un libro d’immagini di vita quotidiana della città – riprese “dal vero” -, con il quale la città intendeva – già allora – autopromuoversi, pubblicizzarsi. Tra le varie vedute una è dedicata pure al Fontego dei Turchi. In essa si vede il Traghetto di San Marcuola nel quale due turchi inturbantati sono intenti a discorrere tranquillamente tra loro attendendo il loro traghetto. Un’immagine di vita quotidiana del tempo di cui faceva parte – serenamente, tranquillamente – la ‘natione turchesca’. Bé, si dirà, cosa c’è di strano? Questo: siamo nel 1717, quando era in corso l’ultima guerra veneto-turca, quando ormai era chiaro che la Morea era perduta e che l’umiliante pace di Passarowitz sarebbe, di lì a poco, arrivata.
Quel sereno conversare dei due turchi ci dice, dunque, questo: Venezia era una grandissima Civiltà che, avendo una coesione sociale, giuridica ed identitaria assai forte non aveva alcun timore dell’Altro, anche se questo era musulmano. Ed è questo il grande insegnamento di Venezia all’oggi: senza identità, senza forza interiore, si ‘tramonta’ inevitabilmente.
da Redazione di Veneto Storia
Concordiamo pienamente con Tomasutti ed aggiungiamo che il dialogo oggi come allora è possibile solo tra due interlocutori forti della propria identità: l’atteggiamento aggressivo di buona parte del mondo islamico, oggi, credo sia la spia del fatto che loro ci percepiscono deboli, incerti nel difendere i nostri valori, che molti di noi, in nome di un relativismo etico, di un malinteso culturalismo paritario, negano addirittura.
Siamo ormai, a distanza di pochi attimi nell’orologio della storia, persino dall’atteggiamento di un Benedetto Croce, liberale mangiapreti, il quale coniò la celebre frase: non possiamo non dirci cristiani.
Oggi l’Europa stessa, in nome di un malinteso laicismo, nega le radici della propria civiltà: radici che sono cristiane, e che Venezia difese nei secoli, fino al suo dissanguamento. Del resto, Paolo Sarpi stesso, lo ribadì nei suoi scritti, in maniera chiara.