COME E PERCHE’, IL TRACOLLO DELLA SERENISSIMA REPUBBLICA di VENEZIA nel 1797.
di Edoardo Rubini
È facile oggi, per noi che stiamo a giudicare i fatti con il sedere affondato nella poltrona, elencare le mancanze commesse allora: la tempesta napoleonica distrusse un mondo grandioso e ne formò un altro di degenere, volgare e violento; il suo prorompere impedì – anche ad uno stato evoluto come la Serenissima – la ricerca e l’attuazione di soluzioni politiche che allora erano ancora percorribili (come le lungimiranti proposte di Scipione Maffei), ma che necessitavano di un tempo e di una calma che la storia non concesse”.
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Umberto Sartori all’indirizzo http://www.veneziadoc.net/Storia-di-Venezia/Venezia-Cristoforo-Tentori-02.php riprende l’opera di Cristoforo Tentori per proporre la rilettura di alcune pagine di storia che da ultimo, nel 1797, portarono all’invasione napoleonica della Repubblica Veneta.
Crediamo che le circostanze in cui fu abbattuta la Repubblica più longeva di cui si abbia ricordo resteranno sempre un problema irrisolto: questo evento rappresenta un condensato complesso e quasi inestricabile delle contraddizioni di tutta un’epoca.
La storia ufficiale ha per lo più proposto giudizi liquidatori sulla classe patrizia che resse gli ultimi anni di uno Stato che ancora godeva di grande prestigio presso le altre corti e in generale nell’opinione comune; oltre a non basarsi su un quadro obiettivo dei fatti, le accuse di viltà che furono rivolte a quei governanti non si accompagnano ad una doverosa disanima dei motivi che in apparenza condussero ad abbandonare l’atteggiamento, sempre mantenuto prima, di difesa irrinunciabile dei Dominii.
L’amor di Patria nella Serenissima, fino a pochi anni prima, aveva trovato una concreta conferma nella vittoriosa campagna militare condotta dal Capitano da Mar n.h. Anzolo Emo contro il Bey di Tunisi (1784-1787); come il proprio Mito, Venezia sembrava resistere indomita alla prova del tempo.
Samuele Romanin nella sua opera descrive la situazione veneta di fine ‘700 evidenziando quanto fosse distante da quella coeva in Francia. Oltralpe il terzo Stato (cioè le classi popolari egemonizzate da una borghesia avventuriera) preme per assumere il potere, sobillato dalle mire dispotiche di alcuni nobili traditori (e da un formidabile intreccio di sette gnostiche e club rivoluzionari); nel Veneto del XVIII secolo, invece, la borghesia (detta “cittadinanza”) non solo se ne sta tranquilla, ma è un riferimento per la stabilità dello Stato, in armonia con la nobiltà giudiziaria (cioè quella mediana, né ricca, né povera) che conduce gli affari pubblici con la consueta serietà e il proverbiale equilibrio.
Umberto Sartori dipinge il nobile Giorgio Pisani, come un coraggioso riformatore, ma le proposte da lui perorate in combutta con Carlo Contarini caldeggiavano provvedimenti demagogici volti ad accattivarsi le simpatie dei patrizi più poveri (assegnazione alle giovani patrizie di doti, aumento degli stipendi ai membri della Quarantia, concessione di stipendi e donativi per alcune cariche in Terraferma e all’estero, fissazione di un’uniforme per i nobili). A dispetto della carica prestigiosa di Procuratore di San Marco da lui assunta, nel 1780 fu condannato a dieci anni di reclusione nel castello di S. Fermo a Verona, essendosi guadagnato la fama di traditore della Patria. All’avvento dei governi municipalisti filo-francesi nel 1797, Giorgio Pisani fu portato in trionfo dai giacobini, dopo essere stato tirato fuori dal castello di Brescia, dove si trovava di nuovo agli arresti per aver ripreso la sua attività sovversiva.
Sartori sembra poi ritenere che in quegli anni l’ebraismo dilagasse a Venezia in funzione rivoluzionaria. È vero che durante le Pasque Veronesi dell’aprile 1797 la comunità ebraica di Verona fu al centro di disordini, tuttavia non sta in piedi la tesi che vorrebbe come generato da un “proto-sionismo” l’inno musicato da Vivaldi “Juditha Triumphans” (dedicato alla vittoria della Repubblica Veneta nella campagna militare a difesa di Corfù), poiché il Libro di Giuditta è un testo contenuto nella Bibbia Cristiana e non accolto nella Bibbia Ebraica, quindi depone in favore dell’ortodossia cattolica degli ambienti veneti più patriottici, dei quali era partecipe il prete musicista Antonio Vivaldi.
I punti deboli della Repubblica Serenissima nel secondo Settecento sono da Romanin indicati nella grande nobiltà detentrice delle proprietà fondiarie; scoraggiata dal diminuito peso internazionale dello Stato Veneto, i grandi patrizi tendono a tralasciare l’attività politica, e peggio ancora sono riluttanti ad investire cospicue finanziarie nelle imprese venete, che non riescono a capitalizzarsi abbastanza per competere con la concorrenza estera, soprattutto nel comparto marittimo.
Poi c’è il problema della piccola nobiltà, che non riesce ad emergere e presta un po’ troppo ascolto ai novatori (così si chiamavano allora gli illuministi). Su tutto incombe una contrazione dell’economia che, tra le altre conseguenze, rende meno ambito e prestigioso il sostegno delle cariche pubbliche: nello Stato Veneto magistrati e governanti sono compensati con parche retribuzioni e spetta a chi occupa posti importanti accollarsi le spese di rappresentanza. Una certa disaffezione comincia a serpeggiare nelle istituzioni, eppure il popolo non brama novità, vuole che tutto prosegua come prima.
La Civiltà in tutta Europa – intesa come istituzioni pubbliche, ma anche come cultura popolare – era permeata da quella Fede Cristiana che vari pensatori settecenteschi, da Rousseau a Voltaire, non facevano mistero di detestare; quindi, con l’ascesa del nuovo ordine, furono le stesse basi morali dell’esistenza ad essere divelte, prima ancora che le strutture politiche.
Le opere degli illuministi erano lette nei salotti (caxini) e discusse da chiunque avesse pretese culturali, la stampa a Venezia era pressoché libera e nelle librerie si trovava anche il testo proibito, irreperibile all’estero; a credere alle nuove tesi (spesso incoerenti e contraddittorie) erano in pochi, per esempio, affascinavano l’ambiente degli avvocati.
Nel complesso, la classe dirigente guarda con disprezzo alle utopie dei novatori, ma il nefasto influsso illuminista si esercita comunque nella società, indebolendo le coscienze e la Fede religiosa. I riflessi sul piano politico furono pesanti, perché si è ormai formato un linguaggio e un intento comune tra alcuni personaggi influenti, che più facilmente consente di stringere intese senza doversi esporre troppo.
Dopo due attentati all’Arsenale, la Repubblica accusa il colpo e passa al contrattacco: dal 10 maggio al 2 giugno 1785 furono smantellate le logge massoniche di Venezia, Padova, Vicenza e Verona. Gli Inquisitori di Stato purgarono questa piaga infetta entrando in possesso degli elenchi degli adepti. Divenne così possibile controllarli a distanza, anche se la repressione del fenomeno fu gestita più in chiave politica che criminale, tant’é che in concreto ci si limitò ad espellere gli iniziati libero-muratori che non erano sudditi veneti e a incendiare nel cortile di Palazzo Ducale l’armamentario sequestrato ai settari di Rio Marin.
I resoconti che il n.h. Antonio Cappello invia da Parigi a Venezia negli anni 1788-1790, riportate dai migliori storici, denotano in lui una levatura intellettuale da grande statista: i suoi dispacci andrebbero incorniciati per la posterità e studiati da tutti. Egli vede nella costituzione giacobina (cioè il sistema liberale dominante anche ai giorni nostri) il modello di governo più improduttivo, conflittuale e contraddittorio che mente umana potesse concepire. Leggiamone le parole: «Una Costituzione è buona, quando i poteri sono distinti, equilibrati, e ben combinati; una Costituzione è viziosa, quando i poteri si confondono, e si concentrano nelle stesse mani in oppressione del Corpo Politico, ma l’Assemblea Nazionale cominciò dall’invadere tutti i poteri, e dal confondere in se tutte le delegazioni della Sovranità, usurpando al poter Esecutivo le funzioni amministrative, ed al poter Giudiziario il giudizio in affari criminali. In somma, esercita essa la sua Sovranità sopra la Nazione medesima, né contenta d’una rivoluzione nelle cose, portò anche una rivoluzione nelle idee ricevute universalmente in tutti i Secoli. Mise in testa della Costituzione la dichiarazione dei diritti dell’uomo, insegnando i diritti a chi doveva[invece] insegnare i doveri».
A far tempo dal 1789 tutta Europa guarda attonita agli sconvolgimenti socio-politici di cui la Francia si rende protagonista; il vecchio continente è terrorizzato dalle montagne di cadaveri che si ammassano nelle piazze parigine, traduzione visibile delle idee che ancor oggi sono decantate come “i Lumi”. Negli anni subito seguenti le principali potenze europee si coalizzano contro una Francia martoriata da feroci lotte politiche ed attanagliata da miseria e fame, che dilagano a causa del crollo delle strutture economiche tradizionali. Dopo la decapitazione del re di Francia il 21 gennaio 1793, si respirano ovunque furiosi venti di tempesta: al termine di uno dei soliti infami processi “democratici”, il 16 ottobre è ghigliottinata anche la regina di Francia, Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Asburgo. La guerra tra Austria e Francia è ormai un fatto inevitabile.
Quasi l’orgasmo rivoluzionario avesse sprigionato una forza misteriosa, la disperata coscrizione militare generale (che porta ad arruolare circa un milione di effettivi per difendere i confini francesi) salva lo stato giacobino dall’invasione degli eserciti lealisti in marcia verso i confini orientali; si è già compiuta l’atroce repressione contro le popolazioni interne che si erano messe di traverso al nuovo ordine, sicchéla massiccia mobilitazione in atto dà adito alla controffensiva francese, nella logica del “tutto per tutto”.
Una prima osservazione va fatta sulle dimensioni e la natura dello scontro che incendia lo scacchiere europeo al volgere del secolo: una guerra di dimensioni continentali, che forse potrebbe già definirsi mondiale, connotata da componenti politiche anti-sistema che non trovano precedenti nella storia.
La campagna militare nella Val Padana, che nel 1796 vede l’esordio al comando generale dell’Armée d’Italie il giovane e ambizioso generale Buonaparte, in origine è progettata come azione diversiva e complementare all’offensiva che le principali armate francesi devono lanciare sul Reno contro il caposaldo della conservazione, l’Impero Asburgico. Come evidenzia nella sua opera Francesco Mario Agnoli, in gran segreto il Direttorio pianifica la direzione dell’intervento oltre le Alpi contro Roma: infatti l’anima giacobina della neorepubblica francese agogna alla distruzione dello Stato Pontificio, con lo scopo di sradicare la Fede Cristiana dal mondo civilizzato. La società rivoluzionaria va esportata con la guerra, parla di libertà, ma il linguaggio che utilizza nella pratica è una violenza senza scrupoli e senza limite.
Sferrati i due attacchi sul fronte del Reno e nella Pianura Padana, la variabile impazzita sarà l’avanzata inarrestabile del personaggio storico che segna tutto questo periodo: Napoleone. Egli passa il confine marciando contro la Liguria l’11 aprile 1796 e nel giro di breve tempo la situazione militare in tutti territori compresi tra il Mar Tirreno e le Alpi austriache diverrà un incubo.
Le ripetute vittorie sul campo lo portano a sgominare, in successione, ben quattro armate austriache nel giro di due anni. I successi del suo genio militare sono in realtà connotati da inedite componenti di natura politica, che affiancano le operazioni belliche. Napoleone combatte una strana guerra dove spionaggio, sedizione, sette segrete, campagne stampa, diffamazione preventiva delle vittime designate, agitazione politica e i conseguenti colpi di stato, aprono la strada alle sue baionette. Il potere politico del Direttorio (così si chiamava allora il governo rivoluzionario) non riesce a controllarlo, perché mentre le principali armate francesi restano inchiodate sul Reno, la sua conquista si accompagna alla rapina sistematica dei territori da lui “liberati”. Nella metropoli parigina cominciano ad affluire denaro, opere d’arte e preziosi. La massa di ricchezza di cui si è impossessato gli consente di manovrare un ceto politico rivoluzionario corrotto come non mai e affamato delle risorse necessarie a tenere sotto controllo la disastrosa situazione interna del Paese.
Il quadro sopra tratteggiato fa comprendere quali siano i due punti salienti che mettono in agitazione i governanti veneziani: 1. una guerra pressoché certa alle porte di casa; 2. la difficoltà di figurarsene l’andamento e progettare efficaci contromisure. Di sicuro non erano in gioco solo conquiste territoriali: a prescindere da come sarebbero andate le cose, il mondo non sarebbe più stato quello di prima. Era una situazione tragica e ultimativa, che agli occhi di chi doveva affrontarla non presentava soluzioni.
Non è possibile conoscere il sistema politico veneziano e nel contempo affermare, come fa Sartori, che il Doge fosse al comando dei Savi di Collegio. Pur essendo un’Autorità che esercitava un indiscutibile influsso sulla politica – per il prestigio che gli derivava dall’essere l’incarnazione della Sovranità (il Principe) – il Doge operava sempre per il tramite di numerose magistrature, di fatto slegate da lui. Il n.h.Lodovigo Manin faceva parte del maggioritario schieramento di centro (non era un partito, ma solo una corrente di opinione), che si collocava in posizione mediana, tra i nobili con più senso patriottico (capeggiati dal Cav. Francesco Pesaro) e l’opposta corrente deinovatori. Questo schieramento di centro era detto (forse con una punta di ironia) degli “economisti”, perché cercavano di evitare le spese di difesa militare, per tenere sotto controllo la spesa pubblica ed il conseguente inasprimento fiscale. Un atteggiamento così prudente da dimostrasi avventato, si potrebbe dire con un aforisma.
Così, lo schieramento di centro divenne il ventre molle facile da infiltrare da parte di chi, nella compagine di governo, nutriva i peggiori propositi, che neppure l’ala dura del Pesaro ebbe la lucidità di smascherare e la forza di contrastare.
Per districarsi nel complesso sistema costituzionale veneziano non bisogna confondere magistrature del tutto diverse tra loro, come succede a Sartori quando afferma: “Ufficialmente i poteri perduti dagli Inquisitori di Stato venivano arrogati dai Savi del Collegio che, in numero di sei possiamo identificare con il Minor Consiglio”; gli suggeriamo di fare degli approfondimenti su un buon testo, come “La Costituzione di Venezia”, vol. 2°, di Giuseppe Maranini, così apprenderebbe che il Minor Consiglio era l’organo che garantiva l’imparzialità dell’operato del Doge, una sorta di ufficio di presidenza che sovrintendeva tutte le magistrature più importanti, in particolare il Consiglio di Dieci. Il Minor Consiglio non ebbe grandi responsabilità nelle traversie della Repubblica negli anni 1796-1797, come non è possibile attribuirne di particolari ai due alti tribunali per i reati politici: il Consiglio di Dieci e gli Inquisitori di Stato.
Le accuse degli storici più avveduti si appuntano, invece, su un organo che in precedenza non aveva avuto un grande potere di indirizzo (avendo invece competenze gestionali): si tratta del Collegio dei Savi. Bisogna sapere che nella Serenissima l’esecutivo era in realtà costituto dall’intero Veneto Senato, che comprendeva i Pregadi, una Xonta, inoltre i componenti di altre magistrature, potendo contare circa due centinaia di componenti. Il Veneto Senato era il cervello dello Stato e il timone del governo, tant’è che tutti i suoi membri erano vincolati al silenzio: gli Inquisitori di Stato vigilavano proprio sull’infrazione di questo obbligo, reprimendo la propalazione dei segreti dello Stato, una specie di controspionaggio.
Il fatto gravissimo che fece collassare la politica veneta nell’ultimo decennio fu un altro: le tre mani di Savi (contavano da 5 o 6 membri ciascuna, avendo al proprio interno quelli che sono gli odierni ministri della navigazione, del commercio, e soprattutto della difesa) violarono l’obbligo di trasmettere al Senato tutti i documenti politici di rilievo, per riceverne le opportune direttive. Il Senato restò così esautorato, mentre pochissimi individui gestirono la politica estera e difensiva in un modo non trasparente, cosa mai avvenuta nei precedenti secoli di vita repubblicana.
Certamente fu un errore di Venezia non aderire alla lega fra Principi italiani proposta dai Savoia che, per quanto poco solida, sarebbe suonata come un altolà alle tentazioni espansioniste di chicchessia. Il governo diede invece inizio ad una pratica autolesionista, costringendo la sua valente diplomazia ad attirare su di sé i fulmini del Direttorio prima e di Bonaparte poi, senza poter apportare alcun vantaggio allo Stato (con l’aggravante che sul suolo veneto avevano trovato asilo il pretendente al trono di Francia e i suoi aderenti, fatto insopportabile a chi aveva ancora le mani lorde del sangue fresco della Casa Reale).
Fu un doloso inadempimento dei Savi di Terraferma non dar corso al riarmo che il Senato aveva deliberato per tempo (e ribadito a più riprese), accogliendo la mozione del Sen. Francesco Pesaro.
Quando ancora era Savio di settimana nell’ottobre 1792, egli in Senato chiese provvedimenti urgenti di riarmo contro il grave pericolo di invasione, assicurando che uno schieramento difensivo non avrebbe attirato l’ostilità di potenze estere: qualora ciò non si fosse fatto, la Serenissima avrebbe invece perduto persino il diritto di protestare per gli inevitabili abusi che l’avrebbero afflitta. Gli rispondeva un altro Savio, il n.h. Zaccaria Vallaresso, sostenendo che, essendo sull’orlo della guerra civile, la Francia versava in tale degrado da non costituire un pericolo, aggiungendo che il riarmo avrebbe attirato su Venezia le pressioni per entrare in una Lega politica, che l’avrebbe poi troppo vincolata sul piano internazionale.
Nasce l’idea di “neutralità disarmata” (che nel 1792 prevalse nei voti), posizione remissiva di chi non voleva neppure considerare la necessità di combattere. La storia che il riarmo avrebbe acceso l’animo popolare contro i Francesi, trascinando in guerra la pacifica Serenissima, non poté reggere un paio di anni dopo. Nell’aprile 1794 i nobili Filippo Calbo e Girolamo Zulian ripresero le ragioni economiche e di tranquillità sociale ed internazionale per osteggiare la linea della difesa armata, ma la Consulta – di nuovo guidata dal Cav. Pesaro – si era invece convinta che abbandonare i sudditi davanti all’invasione nemica avrebbe significato gettare il Paese in un turbine incendiario. Ormai le armate francesi sono ammassate ai confini e l’imminenza dello scontro è visibile anche ai ciechi: il grande nobiluomo ha finalmente buon gioco nel ricordare alla platea che i nostri prudenti antenati in casi consimili non avevano esitato nel presidiare i Dominii, armare le genti venete e munire le piazzeforti.
La Consulta vince con 119 voti favorevoli e 67 contrari e finalmente si mette in moto la macchina difensiva: numerose sessioni successive del Senato tra maggio e giugno 1794 richiamano le truppe schiavone di cavalleria e di fanteria, indicono la leva delle Craine in Istria e delle milizie popolari venete, le Cernide, per formare i reggimenti, commissionano il piano di spesa per la guerra, mobilitano la flotta, danno ordini per rinforzare le fortezze. Dalla costa balcanica affluiscono a Venezia settemila fedelissimi combattenti, che si comincia a dislocare nei punti nevralgici. Tuttavia, la macchina organizzativa piano piano si inceppa, perché qualcuno la sabota.
Ad invasione avvenuta, i colpi di stato occorsi a Bergamo, Brescia, Crema e Verona videro l’adesione di sparute minoranze tra i sudditi: al contrario di quanto spiegano gli ambienti accademici, artefici ne furono pochi nobili traditori e ambiziosi grossi borghesi, non il popolo minuto; tutta la retorica sorta intorno alle “Municipalità democratiche” (gestite dai fiduciari di Napoleone, come la varie Repubbliche Cispadane) va annoverata tra le più colossali mistificazioni della storia moderna: si trattava dei classici quattro gatti cooptati dai Francesi, gonfiatisi come funghi alla loro ombra, ma che quando veniva meno l’appoggio militare tricolore si scioglievano in una rapida putrefazione. “Municipalità democratica” divenne sinonimo di governo dei traditori, gente pronta a qualsiasi nefandezza pur di sostenersi, non godendo di considerazione tra la gente comune.
In definitiva, lo Stato fu rovesciato perché preso tra l’incudine e il martello, tra una guerra spietata e una sovversione insidiosa che il governo non comprendeva del tutto (il fenomeno non aveva un’origine economica, come sosterrà invece il materialismo storico). Una subdola crisi ideologica aggrediva l’animo del Patriziato come una malattia: l’abbattimento del trono e la profanazione dell’altare avvenuti nel suolo di Francia incutevano in tutti loro la segreta convinzione di essere divenuti ormai sorpassati da un’epoca che non aveva più pietà per nessuno.
È facile oggi, per noi che stiamo a giudicare i fatti con il sedere affondato nella poltrona, elencare le mancanze commesse allora: la tempesta napoleonica distrusse un mondo grandioso e ne formò un altro di degenere, volgare e violento; il suo prorompere impedì – anche ad uno stato evoluto come la Serenissima – la ricerca e l’attuazione di soluzioni politiche che allora erano ancora percorribili (come le lungimiranti proposte di Scipione Maffei), ma che necessitavano di un tempo e di una calma che la storia non concesse.
Edoardo Rubini
1° marzo 2013
ANALISI LUCIDA, PRECISA, DOCUMENTATA, CORAGGIOSA E CONTROCORRENTE. CONSIGLIATISSIMA ED EFFICACE PER COLORO CHE DEVONO ANCORA APRIRE GLI OCCHI SU QUESTI TRAGICI EVENTI CHE SEGNARONO LA STORIA DEI VENETI. WSM!
Una sola cosa può essere criticata in questa lucida analisi: sostenere che il giacobinsimo sia il precursore dele costituzioni liberali è travisare in parte tutto il processo rivoluzionario. C’è un modo semplice per spiegare bene la faccenda, ovvero facendo riferimento alle diverse anime liberali del risorgimento italiano. Difatti prima della spedizione dei mille e della scesa in campo (subdolamente non dichiarata) del Piemonte, si era già sviluppato un dibattito sull’Unità d’Italia in cui si sarebbe voluta tentare la strada della confederazione o della federazione. Negli ambienti culturali italiani personaggi come Rosmini proponevano un costituzionalismo di nuovo genere che tenesse conto, per farla breve, delle tradizione e delle diversità. Ciò era in pieno contrasto con l’approccio che invece poi vinse: quello dell’uniformità, della codificazione, della superiorità della legge sul diritto naturale. E quest’ultimo è proprio il vero erede e frutto del giacobinsimo: un giuspositivismo con il culto dello stato che poco ha a che fare con il liberalismo alla Locke, alla Rosmini o alla Hayek. L’errore probabilmente deriva dal fatto che la costituzione italiana, come quella francese, vengono comunemente considerate liberali quando molto più forti in esse sono le influenze giuspositivismo e quindi giacobini. Senza scordare che giacobinsimo e socialismo differiscono di molto poco.
Mah……..Mi verrebbe da dire che se Napoleone è arrivato a Vienna che aveva un’impero con un signor esercito, cosa poteva fare la Serenissima che , in confronto, era una miseria…….Forse sbaglierò, ma se si fosse comportati diversamente, quando l’astro del Corso era ormai allo spegnimento, si avrebbe potuto sperare di aver un pò di voce al congresso di Vienna…….Sbaglio o la Serenissima è stata l’unica nazione che non sopravvisse all’ondata napoleonica ?
Combattere, pur perdendo, ma combattere strenuamente, ci avrebbe forse dato voce al Congresso di Vienna. O scoraggiato l’infame nano corso che di fatto conquistava su opportunità come un avvoltoio ma scansava imprese troppo ardue vedi San Marino.
Personalmente non perdonero’ mai i veneti di allora per non aver combattuto.