“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, si ma a quale prezzo lo stiamo vedendo anche ora.
“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” la frase viene attribuita a Massimo D’Azeglio.
Forse il Marchese Massimo d’Azeglio avrebbe fatto meglio a dare ascolto a suo fratello, meno noto nonostante fosse un filosofo di primo ordine. Si chiamava Prospero Taparelli D’Azeglio. Divenne Gesuita e premise il nome di Luigi. Formulò un principio chiaro e convincente in un suo saggio intitolato Della nazionalità. Esistono – asserisce questo pensatore cattolico – le nazioni. Si tratti di popoli dai tratti culturali comuni e che abitano in un territorio omogeneo. Non esiste però nessuna necessità storica secondo la quale la nazione debba costituirsi in uno Stato. L’edificazione di uno Stato-nazione può essere auspicata, favorita, promossa purché sussistano alcune condizioni, quali il rispetto della giustizia, la volontà maggioritaria del popolo, il miglioramento delle condizioni di vita. Il nostro gesuita, soprattutto prima della deriva rivoluzionaria del 1848, guardava con una certa simpatia ad una confederazione degli stati italiani. Ma le cose andarono ben diversamente.
Per questo motivo, Taparelli d’Azeglio, dalle pagine della Civiltà Cattolica, la prestigiosa rivista dei Gesuiti che nell’Ottocento fu una delle poche voci della “stampa libera”, espresse la sua disapprovazione per lo sviluppo che ebbe il Risorgimento italiano. Manu militari furono invasi i piccoli e i grandi Stati della penisola, alcuni, come il Regno delle due Sicilie, all’avanguardia in campo economico e culturale: basti pensare ai 200 km di ferrovia, o al fatturato del complesso siderurgico di Pietrarsa, che riforniva buona parte dell’Europa. Insomma, come se, in tempi recenti, per fare l’Europa unita, uno Stato – che so, la Germania o la Spagna – avesse invaso gli altri stati e avesse detto: “ora siamo uniti”. Per un pensatore del calibro di Taparelli d’Azeglio, e per ogni persona che crede nella giustizia, il diritto internazionale non può ammettere ciò che accadde in Italia nel secolo XIX.
Taparelli d’Azeglio aggiunge: si faccia pure uno Stato-nazione purché le condizioni di vita della gente migliorino. Macché! Un fiscalismo esoso fu imposto per tentare di pareggiare il bilancio disastroso: il Regno di Sardegna, unificata l’Italia, aveva portato in “dote” il suo spaventoso debito pubblico accumulato con le “guerre d’Indipendenza”. La gente reagì come poté: al Sud, alcuni tentarono la resistenza armata, furono chiamati “briganti” e sterminati da un esercito di 120.000 uomini che mietè vittime molto più numerose che le tre guerre d’Indipendenza che furono ingaggiate. La maggior parte se ne andò: milioni e milioni di Italiani emigrarono. Nel nuovo Stato-nazione avevano fame ed erano ammalati. Sfogliando gli atti parlamentari, datati 12 Marzo 1873, sulle condizioni sanitarie del paese: “la tisi, la scrofola, la rachitide, tengono il campo più di prima; la pellagra va estendendo i suoi confini; il vaiuolo rialza il capo; la difterite si allarga ogni giorno di più”. Miseri, senza mezzi ed istruzione, gli Italiani che andarono oltre oceano trovarono spesso un solo aiuto per la loro promozione umana: preti e suore, come i Salesiani che si occuparono dell’educazione dei figli degli emigrati in Argentina e Brasile, o le suore di Francesca Cabrini che svilupparono una rete di istituzioni assistenziali nella città italiana più grande del mondo: New York, dove c’erano 600.000 italiani.
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