FEDERICO BOZZINI E LA MENZOGNA DEI VENETI CON SGUARDO EBETE NEL 1867
VI TRASCRIVO (con qualche fatica, per problemi di vista) un memorabile articolo-premessa di Bozzini che smonta la teoria che vuole “i veneti deferenti, togliersi il cappello” all’arrivo dei piemontesi, “continuando a lavorare e a digiunare molto più di prima”, fino magari a morire di pellagra o a emigrare all’estero, per non morire di fame. Questa, in sostanza, è la narrazione sia della destra che della sinistra marxista. Popolo quindi di contadini obbedienti e passivi…
….In buona sostanza, secondo la storia ufficiale, nell’ottobre del 1866 i contadini veneti con occhio ebete videro partire i padroni austriaci e videro arrivare quelli piemontesi. Si tolsero deferenti il cappello e continuarono a lavorare e digiunare come prima. Non successe nulla.
Nelle pagine che seguono ho cercato di raccontare quello che, secondo gli archivi e la stampa, risulta essere accaduto nel corso del primo anno dell’occupazione piemontese. Come vedrete, se avrete la pazienza di leggere, sembra che qualcosa sia successo. Per la mia comodità ho lavorato solo su materiale della provincia veronese, ma la stessa operazione, con risultati forse più stupefacenti può essere compiuta su ogni città ed ogni paese della regione.
Il problema ora è quello di capire come mai degli storici avvertiti e di sicura professionalità giudichino “nulla” tutto questo. Ma, a ben vedere, si tratta di un problema tutto loro. A noi basta ribadire ulteriormente quella che una delle tipiche virtù venete: la diffidenza, grande strumento di autodifesa.
Mi limito ad una considerazione. Diversa è l’immagine che rimandano i pellerossa a seconda della storia che noi conosciamo. Non ci può essere stima e rispetto per loro se noi riusciamo a credere a un popolo cresciuto nelle riserve. Diversi sono i sentimenti che ci suscita l’indiano ubriaco che balla all’arrivo dei turisti se alle spalle ha una storia di servitù continua oppure se suo nonno, libero e selvaggio, ha lottato e perso.
Per questo è importante raccontare Little Big Horn e la Wounded Knee del popolo veneto. Dobbiamo rifare il percorso per capire come, quando e chi ci ha spezzato la schiena e le ginocchia. Se si perde la memoria delle battaglie nelle quali siamo stati battuti, la nostra condizione di sudditanza odierna, non sta più nella forza militare dell’avversario, ma dentro di noi.
E non c’è posto migliore per conservare la debolezza del vinto che piazzarla dentro la sua testa, il suo cuore, il suo carattere.
Si è parlato e scritto talmente a lungo delle classi subalterne, che ci siamo quasi convinti di possederla.E’ da parecchi anni che questo fantasma senza corpo si agita in seno alla sinistra. Come se il semplice fatto di sentirne il bisogno logico ed ideale fosse di per se stesso una causa sufficiente alla sua esistenza.
L’urgenza delle motivazioni ideologiche e politiche che ci facevano sentire la necessità di un apparato storico in linea, hanno comportato da un canto, la produzione di un certo numero di surrogati, di favolette storiche fotocopiate malamente sull’ipotesi politica c he ci interessava ribadire; dall’altro, queste povere rimasticature con grosse pretese didattiche non hanno mai turbato i nostri sogni ideologici. La storia che ci siamo costruiti … non è mai stata fatta di racconti che ci creassero imbarazzi… Non è stata, a ben guardare, neppure occasione di confronto, e di messa alla prova di nostre certezze. Ha sempre funzionato banalmente da conferma servile e preconfezionata, qualunque fosse la nostra linea, e il nostro delirio politico. Per ottenere questo bel risultato abbiamo dovuto imparare giudizi storici di una grossonalità spaventosa.
Come quella che, per essere dalla parte del popolo, bastasse militare a sinistra, progressisti, e in fin dei conti, intelligenti. Modelli di pensiero preconfezionati, da applicare alla società e alla storia. Ma liberandoci dagli schemi ideologici …forse scopriremmo che la gente non è stata la passiva osservatrice della marcia trionfale della scienza e della tecnica, che in buona sostanza la gran massa della popolazione povera delle città e delle campagne ha storicamente vissuto e sofferto l’incedere vittorioso di questo progresso laico, scientifico, urbano industriale come un attacco violento e diretto contro le sue condizioni di esistenza e le sue convinzioni culturali più profonde.
Se riuscissimo a non sorvolare sul baratro abissale che divideva le speranze e il modo di pensare del contadiname cattolico dalla camicia rossa anticlericale e garibaldina, nella quale molti di noi si sono piacevolmente identificati, potremmo forse ricevere una lezione di saggezza politica di cui abbiamo tanto bisogno… E ci aiuterebbe a capire il nostro sradicamento attuale.
Nel 1866 le truppe italiane entrano in Verona. Ben presto il consenso popolare si usura. In poco tempo le masse popolari si rendono conto d’aver semplicemente cambiato padrone. E di aver cambiato in peggio. La tensione aumenta velocemente nelle campagne.
Già nel febbraio del 1867 succedono tumulti contadini in parecchie regioni del Nord.
L’intero articolo di Federico Bozzini (autore de L’arciprete e il cavaliere: un paese veneto nel risorgimento italiano) l’ho ritrovato sfogliando “Quaderni Veneti” nr. 3 curato all’epoca da Moreno Menini e altri suoi collaboratori valentissimi.