GLI ARISTOCRATICI SCONTENTI DEGLI AUSTRIACI, LA PREMESSA DELLA CRISI DEL 1848.
Di Millo Bozzolan

la Repubblica di San Marco, mai riconosciuta dai Savoia. Il modello accentratore era già un programma di unità.
Nel 1816 fu insediata una commissione col compito di esaminare i titoli di nobiltà veneziani e della terraferma. Un primo mutamento significativo, che scontentò i nobili veneziani, fu l’abolizione della differenza tra Patriziato e Nobiltà di Terraferma, e ciò causò nella città lagunare “molto cattivo sangue”.
Ma anche gli altri nobili ebbero da lamentarsi, perché, ad esempio un duca non poteva più essere chiamato “Altezza”, né le figlie “Principesse”. Inoltre, Vienna legò il diritto del titolo al patrimonio posseduto, adottando una legge francese del 1808, per cui un un principe doveva avere un patrimonio minimo di 200.000 fiorini, 30.000 un conte, 15.000 un barone…
Furono fatte delle eccezioni per i matrimoni misti, ma l’applicazione della legge scontentò tutti, alla fine. Inoltre, certi gruppi di nobili italiani non si inserivano perfettamente nelle categorie araldiche: i “nobili diplomatici” e i “nobili araldici” vedevano riconosciuto il titolo ma non confermato. e questo fu il destino ad esempio dei “cavalieri vessilliferi” di Venezia.
Questi cambiamenti, provenienti da un regime che aveva accettato l’abolizione dei privilegi decretata dai francesi, quasi inevitabilmente lasciò alla nobiltà italiana il sospetto di essere considerata di seconda classe. Il comportamento della nobiltà austriaca e la pratica della corte vicereale asburgica non fecero nulla per attenuare questi sospetti.
L’idea di mescolare il sangue di un Contarini con quello degli Schwazemberg, avrebbe certamente meravigliato, se non fatto sorridere i nobili austriaci, tanto i legami sociali tra le provincie italiane e Vienna erano rari.
Idealmente la corte del viceré a Milano avrebbe dovuto servire ad una “fusione” con il mondo aristocratico locale, ma succedeva il contrario, e nel 1848 l’aristocrazia lombarda la snobbava del tutto. La contessa di Ficquelmont descriveva la vita da lei condotta a Milano nel 1847 come “di totale isolamento dai milanesi”, proprio come “un avamposto in territorio nemico”.
La corte vicereale naturalmente viaggiava in economia e l’appannaggio di 100.000 fiorini non bastava al viceré per competere con la generosa memoria di Eugenio e dal momento che l’arcivescovo tedesco di Milano viveva con altrettanta frugalità, un bel giorno sotto la statua “dell’uomo di pietra” del centro cittadino apparvero le seguenti parole:
“Son sempre stato solo, ma adesso siamo in tre, l’Arcivescovo, l’Arciduca, e me”.
La corte seguiva rigorosamente l’etichetta spagnola, più che inviti venivano spedite ingiunzioni a presentarsi; e peggio ancora non tutti quelli che arrivavano venivano fatti entrare subito, cosicchè, come ebbe a dire la Ficquelmont “giungere a corte e restare in un angolo, finché non si era verificato il vostro nome e rango non è poi un favore cui alla lunga sia impossibile resistere”.
Inoltre i nobili lombardi e veneti si aspettavano di accedere alle massime cariche burocratiche ma queste venivano quasi sempre concesse ai tedeschi. “i figli dei ricchi” scrisse nel 1847 Gabrio Casati “sono ovviamente scoraggiati, e non potendo perseguire un’onorevole carriera pubblica, sviluppano progressivamente un’avversione nei confronti del governo”.
L’opposizione al dominio austriaco stava chiedendo di essere comperata al giusto prezzo. Ma gli austriaci si rifiutarono, ricorrendo ai luoghi comuni sul carattere nazionale degli italiani, considerati più amanti dei ritrovi nei caffé e della bella vita che del servizio allo stato.
sunto da
Radetzsky e le armate imperiali di Alan Sked, ed Il Mulino 1979
Quadro veritiero, non era tutto rose e fiori. L’Austria significava rigore morale, ma la politica asburgica fu spesso ottusa e, ignorando le specificità dei vari popoli dell’Impero, finì per dare esca ai nazionalismi italiano e slavi.