I oresi
Il Maggior Consiglio, con delibera del 23 marzo 1331, aveva ordinato che gli orefici (oresi), non potessero aver bottega, né mercanteggiare in lavori d’oro e d’argento in un luogo diverso dall’isola di Rialto. Sebbene la legge venisse poi revocata, gli orefici continuarono, almeno per la maggior parte, a stanziare a Rialto, e precisamente nelle strade che tuttora ne portano il nome come la “Ruga dei oresi”.
Il Sabellico, parlando di questo tratto della città, lo chiama “degli anelli” per i molti anelli che vi si fabbricavano. Oltre agli anelli, però, gli oresi si distinguevano anche nel fabbricare i “manini”, quei gioielli che un tempo si definivano “entrecosei”, cioè “intrigosi”, perché fatti di sottilissime magliuzze d’oro intrecciate l’una all’altra, o perché facili, maneggiandoli, a ravvolgersi ed avvilupparsi assieme.
Gli orefici in Venezia fiorirono sin dai tempi antichissimi, si trovano infatti in una carta del 1015, ed in certe convenzioni tra il Doge Ottone Orseolo e gli Eracliani, definiti “aurifices”. Si ridussero in corporazione nel 1300, uniti ai gioiellieri, i gioiellieri da falso e i diamanteri, sotto l’egida di Sant’Antonio Abate a cui eressero nella chiesa di San Giacomo di Rialto, un magnifico altare con prossimo sepolcro, il diritto al quale fu loro accordato il 9 aprile 1601 col patto che offrissero ogni anno al Doge, due pernici nel giorno di Santo Stefano.
Coloro che volevano essere ammessi a quest’arte, dalla quale venivano esclusi gli ebrei, dovevano sottostare ad una prova d’idoneità al ramo prescelto. Nel 1693 i rami erano i seguenti: legature di zoje alla veneziana ed alla francese; catenella d’oro, filigrane, catena d’oro massiccia; argento alla grossa come coppe bacinelle calici ed arredi sacri; posate, minuterie, bottoni di filo; sbalzo a ceselli. Dovevano saper sfaccettare il diamante, il cristallo di rocca, il rubino, lo smeraldo ed il granato; dipingere a smalto e intagliare a bolino.