IL CAPITALISMO CRISTIANO DI VENEZIA. il miracolo di Alvisopoli.
Di Millo Bozzolan
Venezia era l’espressione di una repubblica cristiana, non date retta a chi la descrive come una repubblica di mercanti che badavano unicamente ed egoisticamente a far soldI, come sembra pensare lo storico F. Lane. Era considerato deplorevole pensare solo all’accumulo di denaro, e basta.
Le ricchezze trovavano la loro giustificazione morale se parte di esse erano impiegate nelle opere di carità e nel soccorso ai poveri e ai malati. Persino ai notai era fatto obbligo di ricordare ai testatari di devolvere parte delle loro ricchezze agli indigenti e ai bisognosi. E questa, se vogliamo, era un’etica di impronta protestante.
Le categorie produttive, rappresentate dalle “scuole” e dalle “Fraglie”, erano anche organizzazioni di mutuo soccorso, verso i soci, ma anche verso i bisognosi. Ad ogni riunione dei “soci” si stabiliva anche quanto spendere in opere di carità.
Qualsiasi storico ve lo può confermare, e questo distingue il “capitalismo” cristiano dal capitalismo di impronta liberale (oggi libertarian), che ha come principio unico quello dell’arricchimento di chi fa impresa. Ciò ha già avuto in passato, conseguenze disastrose. Ma una cosa è certa, non si voleva abolire il capitalismo, ma dargli una dimensione etica come nella tradizione veneta.
Si pensi allo stato della società occidentale nell’800. Immense ricchezze in mano di pochi e popolazione sempre più povera e schiavizzata. Ebbene, è quello che oggi si vorrebbe tornare a fare.
Questi capitalisti veneziani che poi reggevano la città e lo stato, non esitarono ad approvare provvedimenti di esproprio delle proprie ricchezze (che portò al fallimento di molti di loro) in situazioni di emergenza (tipo la guerra di Chioggia, le campagne condotte dal doge Foscari, la guerra di Creta) pur di salvare la repubblica.
Ma sul finire del Settecento questi principi etici di sana impronta illuministica, portarono ad esperimenti come quello di Alvisopoli:
Sul finire del Settecento, a ridosso del piccolo centro rurale di Fossalta di Portogruaro, sottile cerniera tra la provincia di Venezia e la friulana Pordenone, un uomo, figlio del migliore Illuminismo, ebbe la rara possibilità di vivere la sua utopia idealistica.
Il suo nome era Alvise Mocenigo e nacque a Venezia il 10 aprile 1760 da Alvise V Sebastiano e da Chiara Zen, maggiorenti di un casato tra i più influenti e facoltosi della città lagunare d’allora. Nel 1790, presa in mano – in maniera alquanto disinvolta – la gestione delle proprietà della famiglia, Alvise intraprese un ambizioso progetto urbanistico, attraverso il quale gettò le basi di una città del tutto autosufficiente e funzionale, trasformando un vasto latifondo in un esperimento piuttosto articolato, sia dal punto di vista urbanistico che di significato sociale, nonché dai costi che si presentarono piuttosto elevati. Ma, alla fine, si trasformò in un’esperienza sociale e produttiva di grande rilievo storico.
Il latifondo, conosciuto sotto il nome di Molinat, era un ambiente paludoso, desolato e malsano, attraversato per lunghi tratti da un fiume di risorgiva; una terra nella quale la regina indiscussa era lamalaria, l’aria insalubre, e, come lasciò scritto lo stesso Mocenigo, “una settantina di miseri formavano tutta la popolazione, gonfi di ventre, gialli di fisionomia, di cortissima vita”.Tra le fonti da cui Alvise dedusse l’ispirazione per costruire la sua città notevole peso ebbero le idee di Pietro Giannini e Gaetano Filangieri, in piena sintonia col Secolo dei Lumi. Peraltro, frequentava l’Accademia degli Estravaganti, come era di casa nella più famosa Arcadia. A sua volta prese ad esempio Ferdinandopoli, la Comunità agricolo manifatturiera di San Leucio sorta nei pressi di Caserta, per volontà di Ferdinando di Borbone, re delle Due Sicilie.
La città di Alvise, che poté chiamarsi Alvisopoli nel 1800 grazie al governo austriaco, era impostata secondo criteri tra i più moderni della scienza agraria del tempo, integrata da una stretta filiera che si occupava della trasformazione dei prodotti e la distribuzione degli stessi sul mercato. Tra le produzioni, ad esempio il Mocenigo, ricordò “sopra l’uva, come sopra diverse altre materie, e con quali maggiori o minori mezzi si potesse estrar lo zucchero…Alle api e al miele dunque si rivolse il pensiero”. A queste si aggiunsero la coltivazione del riso, attraverso le più moderne tecniche piemontesi, la filatura di vari tessuti e la conceria.
Il grande lavoro di bonifica e la stessa città abbisognava di una nuova popolazione; e questa fu trovata nei possedimenti dei Mocenigo sparsi per tutto il Veneto: nuclei familiari di contadini e braccianti arrivarono dal vicentino, dal padovano e dal veneziano, in particolare dai dintorni della località di Cavarzere.Dopo di che si intraprese la canalizzazione delle acque, attraverso l’escavo di due canali scolatori, il Taglio e il Fossalone, quindi si passò al rimboschimento dell’area, introducendovi diverse specie arboree. Allo stesso tempo si costruirono a villa padronale, le barchesse a loggia in stile dorico, la scuderia, la cantina, che delimitano un grande giardino all’italiana. Poco lontano le case coloniche e gli edifici adibiti alla lavorazione dei prodotti, quale il mulino, la fornace, la filanda, la conceria e per la pilatura del riso; non mancavano i fabbricati per la vita di ogni giorno: la chiesa, le scuole, la farmacia e una locanda.
https://vocidaiborghi.com/2019/02/05/alvisopoli-un-utopia-settecentesca/