IL FERRO PORTA FORTUNA CHE RACCONTA LA SUA STORIA
Appena arrivato nella casa che occupo anche adesso, fui colpito dalla storia che queste mura ultracentenarie avevano visto passare davanti a loro. Questa valle (la val di Seren, a nord del Grappa) nel 1917 era stata occupata da decine di migliaia di soldati austriaci che avevano sfondato la linea di Caporetto insieme ai “todeschi” e si erano spinti, rincorrendo i “taliani” fino alle cime circostanti (monte “Piurna”, Solaroli, Col dell’orso), per fermarsi arroccandosi sul lato nord del Grappa. Bene la mia magione, li aveva visti passare quei soldatini austro ungarici, come poi aveva assistito impassibile all’arrivo baldanzoso di Italo Balbo a capo degli “Arditi” che veniva a liberare il paese di Seren e a por fine al terribile “an de la fan” (anno della fame) in cui paesani e occupanti si contendevano persino le ortiche, per sopravvivere al terribile inverno.
Mi immaginai che qualche traccia di questo via vai doveva esser rimasta intorno alla nostra magione: e infatti, anche battendo il sentiero che era stato trasformato dai prigionieri russi in una carreggiabile che portava rifornimenti alle prime linee dei “todeschi”, non tardai a recuperare qualche caricatore e qualche proiettile ormai inerte, di moschetto, che sul fondello portava la data del 1917, anno fatidico. Anche un paio di gavette portate dal torrente saltarono fuori… e tutto ora è nelle mani di un paio di collezionisti che ebbero la ventura di incontrarmi sulla porta di casa, anni fa. Per non parlare del proiettile di cannone italiano inesploso, a 50 metri dalle mie finestre, scoperto dopo una “brentana” (piena) di un canale di scolo, in primavera e poi fatto deflagrare dagli artificieri una decina di anni or sono.
Ma di una cosa non mi sono mai separato: un umile ferro di cavallo, anche esso affiorante tra la ghiaia della ex mulattiera, fidando nelle sue proprietà di porta fortuna volli appenderlo sul trave del caminetto. E’ quello delle due foto: ho pensato che lo avesse sugli zoccoli un “muss” (asino) o un mulo austro ungarico, data la zona. Però ho sempre avuto il dubbio che fosse ancora più antico: infatti se studiate bene le immagini, potete notare che i chiodi sono fatti a mano, chiodi che mi fan venire in mente quelli prodotti in val di Zoldo, in Cadore, all’epoca della Serenissima. Tutta la valle era infatti piena di botteghe di fabbri, che li producevano in maniera quasi industriale, grazie al minerale estratto dalle miniere di ferro. Perché, come ho accennato in altri articoli, lì si producevano anche le famose spade “schiavone” che armavano gli Oltremarini, detti più comunemente “schiavoni”, truppe dalmatine d’élite della Repubblica di san Marco.
Ecco, mi resta questo dubbio: il ferro di cavallo, nato per permettere a un mulo di camminare anche sul ghiaccio e la neve, è di un povero quadrupede “coscritto”, o di un “muss” borghese di un valligiano di qualche tempo più antico ancora, che portava il suo carico di granaglia da macinare al mulino ad acqua poco distante? Del Mulino purtroppo è rimasto un bell’edificio con porticato, ma privo delle macine originali, asportate dai vecchi proprietari. Peccato…
Ecco il quesito che vi giro, se c’è qualche collezionista di reperti della grande Guerra mi scriva magari in chat o in bacheca.