La moda veneziana del ‘500
di Theusk
Il Priuli ci fa sapere, rimproverando i suoi concittadini, che la moda del 1500 a Venezia” imita li vestimenti alla francese, ancorché la nazione fosse così odiata da tutta Italia” e Francesco Sansovino si duole che gli italiani avessero mutato “ lo abito della persona, per parere quando francesi et quando spagnoli“.
Questo era in sintesi il trend, in particolare tra i patrizi veneziani i quali, smesse le toghe giravano per la città in fogge straniere con “zippone” giubbottino senza bavero, stretto e corto, allacciato alle calze “stafete“, oppure aperto sul davanti che lasciava vedere “camiscie di sommo prezzo da femmine“.
I calzoni erano larghi, a campana, allacciati al ginocchio, con passamani e cordoncini; sulle spalle la “gavardina” e in testa un berretto o cappello piumato.
Cosí li prese in giro un anonimo loro concittadino:
” Coi so bragoni fati a campanelle
Coi zipponi tirai zo ala spagnola
Coi rizzi, che i par tante putanelle“
Più fantasiosi erano invece gli abiti femminili, preziosi e colorati che davano alle donne una grazia principesca, una maestosa eleganza.
Tutte le sontuosità erano concentrate sulle vesti di broccato d’oro, sui manti dal lungo strascico e sulle cinture impreziosite d’oro o d’argento.
Non cadde in disuso però quel lungo velo nero che dalla testa scendeva sulle spalle fino a terra che dava alla persona quella misteriosa attrattiva che fece dire all’Aretino (che come abbiamo visto di donne se ne intendeva):” Sotto il nero trasparente velo, veggonsi in carne gli angioli del cielo“.
Velo che in seguito fu chiamato “vesta” o “cendà” e divenne caratteristico del costume del ‘700.
Il massimo dell’eleganza era però, anche d’estate, portare in mano o appoggiato sulle spalle, una pelle di “zebelin” o di “schiatto da tenir in man”.
Ogni piccolo particolare del vestiario era ricercato e l’uso delle cinture e delle fibbie divenne così comune da rendere prospera l’arte dei centureri e dei fiuberi.
Le veneziane erano famose per “l’espoitrinement à la facon de Venise” overossia per l’usanza di andar col petto “descoverto per galanteria” e Antonio Persio, di Matera, vissuto alcuni anni a Venezia ospite dei Corner, ci racconta che il gesuita Alfonso Salmeron, tornando dal Concilio di Trento e fermatosi in città a predicare, si mise a biasimare con fervore questa moda e “fece alzare i corpetti delle donne sopra le mammelle, et in cambio del sottilissimo velo che portavano sopra la carne, ordinó che si facessero un giupone accollato, che dal nome del predicatore fu chiamato “salmerone“. Ma il salmerone non deve aver avuto molta voga perché non se ne trova alcun ricordo..
L’intimo femminile era spesso una vera macchina di tortura, costituito da busti metallici chiusi al petto da chiavi o da molle a scatto sostituiti più avanti con busti di stoffa con stecche di ossa di balena.
Le calze erano di seta, di vari colori, “listade de razo e d’oro“, i “calzoni che non si veggono” (mutande) erano arricchiti da merletti e da ricami mentre le camicie da notte, quasi sempre in finissimo lino, erano trinate, smerlate e ricamate d’oro.
I guanti si facevano di trine, di seta ricamata, di finissima pelle miniata mentre i calcagnetti (zoccoli) portati dalle veneziane sin dai primissimi tempi per poter camminare senza sporcarsi nelle strade fangose, diventarono oggetti lussuosi , in broccato oppure dorati e gemmati e con la suola tanto alta da sembrare trampoli.
Anche il ceto popolare seguiva una sua moda. Graziosi erano i “corpeti‘ farsetti e le gonne “carpete” di “cambrà” cotone o di seta cruda “zetano” e le popolane sapevano giocare con i colori unendo armoniosamente le tinte più differenti mentre anche gli uomini del volgo adottavano mode foreste così da fare rimpiangere ad Andrea Calmo il tempo antico, quando la gente portava “le calze a la martingala, le so scarpe e zocoli de cuoro, e la bereta assetà, radai che i pareva maioliche lusente, e no ste foze a la forestiera strataiae e recamae e incordonae…ruina e desfation de le fameie“.
“Liberamente tratto da Molmenti”