LE SOLLEVAZIONI AL GRIDO DI SAN MARCO TRA BRESCIA VERONA E BERGAMO
Di Dan Morel Danilovich
LE PASQUE VERONESI gli scontri a Salò 1 aprile 1797.
Gli abitanti di Maderno, Tuscano e Teglio, senza frapporre indugio, presero a loro volta le armi e si affrettarono a raggiungere i Marcolini di Salò. La cittadinanza era in quel periodo, un centro importante sul lago di Garda e godeva di una vasta autonomia. Governata da un Podestà veneziano fu “democratizzata” il 28 marzo, ma già il 29 abbatté l’albero delle libertà, innescando immediatamente il sollevamento di altre cittadine. Questo spiega l’immediata reazione giacobina.
Minacciando prima di ridurre questa contrada in un ammasso di ruderi, preferirono poi inviare parlamentari per iniziare trattative. Accortisi però i salodiani del tentativo dei giacobini bresciani di introdursi, come erano avvezzi a fare, con l’inganno in città, i Marcolini aprirono il fuoco uccidendone e ferendone un certo numero. I giacobini, infuriati per queste perdite, convinti semre più di avere la vittoria in pugno, forti dell’arrivo di due cannoni, ripresero determinati l’attacco.
“Lo scontro fu cruentissimo, in quanto in alcuni punti si combatteva corpo a corpo e per la superiorità del numero e dei mezzi dopo alcune ore pendeva dalla parte degli aggressori, malgrado la buona volontà dei difensori, che avrebbero dovuto soccombere, quando a decidere le sorti, intervennero, del tutto inaspettati, gli abitanti della Val Sabbia. Questi montanari, riunitisi in consiglio secondo il costume degli antichi comuni loro, aveva deliberato come un solo uomo di unir le loro sorti a quelle di Salò e degli 80 schiavoni delle compagnie sciolte del Reggimento Matutin di stanza a Bardolino e che già affiancavano i salodiani nel combattimento.
Quelli della Val Sabbia avevano affidato il comando delle loro Cernide a un dei loro preti, Don Andrea Filippi, parroco di Barghe. L’improvvisato comandante, informato dei combattimenti in corso intorno alla città di Salò, diede prova di qualità strategiche insolite, e divisa la sua truppa in tre colonne, piombò sulle truppe giacobine da tre diverse direttrici.
Di fronte all’impatto furioso dei montanari, la rotta dei seguaci delle nuove idee fu totale e disordinata. Stretti tra valligiani trionfanti e le acque del lago, dopo aver lasciato sul terreno un gran numero di morti e una moltitudine di feriti (72 caduti e 200 feriti) non rimase loro che arrendersi. Tale sconfitta praticamente decapitò l’intera classe dirigente dei traditori, dal momento che tra i prigionieri condotti a Salò “annoveravasi due Lechi, un Gambara, e altri o pochi rappresentanti dei più illustri casati di Brescia e di Bergamo”. I prigionieri, circa 500, vennero condotti da Salò a Venezia, per poi essere custoditi nel forte di Sant’Andrea, passando da Verona, dove l’accoglienza a loro riservata dal popolo non fu delle migliori.

E’ lo stesso Gambara che la descrive in un suo rapporto successivo: “Passammo per mezzo di un popolo furibondo che ci insultava con fischiate minacce, sputi e imprecazioni…colà come vili animali esposti alla brutalità veronese passammo ogni sorta di patimenti. Laceri e in parte denudati formammo gradito spettacolo a quella ciurmaglia”.
Dan Morel Danilovich da fonti sotto elencate.
Antonio Paravia, mio portafoglio di viaggio,
Pietro Miovilovich, Diario,
Barbarich, La campagna di Napoleone in Italia
O. Perini, Storia di verona
T. Pizzetti, con la bandiera del Protetor San Marco.
—