Ca’ d’oro, luogo del cuore.
Il mercante Marino Contarini aveva voluto che per il suo palazzo in riva al Canal Grande fossero utilizzati i marmi più preziosi e i materiali più pregiati. Egli stesso aveva voluto coordinare i lavori, collaborando con passione con i vari architetti succedutisi, e tenendo minuziosamente il conto dei lavori e delle notevoli spese. Alla sua morte nel 1441 lo splendido palazzo passò in eredità all’unico figlio maschio, che morì poco dopo. La proprietà della Ca’ d’oro, così detta per i dettagli in oro che originariamente abbellivano la facciata, finì divisa tra le figlie femmine. Questo nei secoli successivi determinò un ulteriore, continuo smembramento, a causa delle varie esigenze abitative, dei passaggi di proprietà, di interventi inappropriati, asportazioni e adeguamenti che risultarono devastanti. Quando nel 1846 il palazzo fu acquisito dalla ballerina Taglioni, proprietaria di altri palazzi veneziani, la Ca’ d’oro era considerata un bene in rovina. La diva affidò il restauro a un architetto ravennate alla moda, Meduna, che modificò pesantemente la facciata e gli interni. La Ca’ d’oro finì sfigurata, venduto e disperso anche ciò che rimaneva. Fu solo nel 1984 che grazie al barone torinese Giorgio Franchetti, il destino di questo palazzo finalmente cambiò.
Franchetti, , uomo illuminato, di grande cultura e dai molti interessi, dotato di animo sensibile e innamorato cultore delle Arti, acquisto il palazzo, al cui recupero dedicò i 28 anni di vita che gli rimanevano. Franchetti non aveva voluto risiedere nel palazzo che il padre aveva acquistato a San Vidal, stravolto da un discutibile restauro ad opera di Camillo Boito, e iniziò l’opera di appassionato e amorevole recupero della Ca’ d’oro, dove intendeva trasferire anche le importanti raccolte di opere d’arte che andava raccogliendo.
Impiegò ingenti capitali e non solo quelli. Gli amici, tra cui D’Annunzio e Mariano Fortuny, andando a fargli visita lo trovavano spesso inginocchiato a terra, intento a lavorare alla composizione dei mosaici della pavimentazione del portico. Lo avrebbe voluto simile a quello della Basilica di San Marco, con l’utilizzo di preziosi marmi policromi, il più possibile uguali agli originali. Per riportare la Ca’ d’Oro al suo stato originario recuperò caparbiamente presso antiquari di tutto il mondo gran parte di ciò che il Meduna aveva buttato via, a partire dalla splendida vera da pozzo dei Bon.
Ricostruì la scala quattrocentesca del Raverti ricomponendola pezzo per pezzo e il portale verso la calle, rifece la merlatura mutilata, ricostruì l’atrio e chiuse le finestre della facciata che il Meduna aveva scriteriatamente aperto.
L’opera di recupero andava a rilento, a causa della mancanza di fondi, nel 1916 Franchetti donò la proprietà allo Stato italiano, in cambio di contributi per la prosecuzione dei restauri.
I finanziamenti però si facevano attendere, Franchetti, gravemente malato e addolorato per l’impossibilità di vedere la conclusione dei lavori, si suicidò nel 1922. Gli eredi portarono a compimento l’opera da lui iniziata, nel 1927 venne aperta la Galleria che raccoglie eccezionali ed inestimabili capolavori artistici, intitolata al suo nome. Sono ambienti in cui l’atmosfera è pervasa di Bellezza, quasi la si può respirare.
Il barone aveva espresso il desiderio che le sue ceneri fossero sepolte alla Ca’ d’oro, come da suo volere ora riposano nel portico, sotto una colonna in porfido. Quasi a rimanere per sempre a custodia di una creatura tanto amata.
Quanti tra i turisti distratti che si aggirano tra le sale e nel portico si rendono conto di quanto amore, quanta cura, passione e dedizione c’è dietro ogni pietra, ogni piccola tessera di mosaico, ogni pittura. ogni piccolo fregio?
Sì tutto vero . Vorrei però ricordare che all’epoca della Ca’ d’Oro tutti o buona parte dei palazzi che prospicevano nel” canalazzo” erano colorati( con affreschi e altre tecniche) lo erano invero pure le gondole( coloratissime) fino al 1600 quando, non in occasione e/o a causa della peste, come molti credono, ma per evitare le continue gare a chi avesse la gondola più colorata o agghindata, il Doge impose per tutti il nero
Colore nero.
Mi pare che questo articolo ricordi un po’ troppo da vicino quelli pubblicati da me qualche tempo fa! sarebbe stato carino almeno citarli!
https://www.venetostoria.com/?s=daniela+palamidese&submit
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