CARO ANGELA, LE CARCERI VENETE NON ERANO I PIOMBI
Le scrivo queste righe sperando che Lei abbia la pazienza di leggermi, dopo aver assistito all’ennesima distorsione della storia di Venezia che Lei ha proposto nella sua ultima trasmissione dal palazzo dei Dogi. Lei non può, se vuole fare una divulgazione corretta, presentare i Piombi e il camerotto delle torture, come esempio tipico del sistema carcerario veneziano! Per avere un’idea di come eran trattati i carcerati le allego questo sunto di un saggio del compianto storico Giovanni Scarabello il quale descrive come vivevano nella realtà i carcerati normali, trattati meglio che nelle carceri svedesi odierne… I Piombi e il Ponte dei Sospiri li lasci alle leggende nere su Venezia, in cui attingono ancora a profusione certi divulgatori nostrani, che lei usa , mi pare, come consulenti. Ma c’è un detto veneziano che dice: “El mal se vende megio che el ben”. Le carceri el palazzo Ducale, eran sotto la giurisizione del Consiglio dei X, quindi erano carceri speciali, destinate a chi attentava alla sicurezza dello stato. Come il suo Casanova, accusato di essere un massone.
L’AUTOGESTIONE NELLE CARCERI A VENEZIA: LA GIUSTINIANA
La storia della nostra amata Venezia offre a chi voglia approfondirla, motivi di continuo stupore e meraviglia, per le leggi, gli usi e le consuetudini nei campi più diversi, a volte così in anticipo sui tempi, che nemmeno al giorno d’oggi possiamo trovare esempi del genere.
Quello di cui vi scrivo è uno di questi casi. Non esiste credo, in nessun carcere moderno del mondo, un autogoverno dei detenuti, a meno che non si voglia considerare tale, l’ordine imposto con la violenza e il terrore da qualche caporione o gang.
A Venezia i blocchi che facevano capo a un comando di guardia erano sei, chiamati “Signori di notte”, “Presentati”, “Novissime”, “Civili”, “Forti” e “Cai”. Un altro gruppo (Le Quattro) come i camerotti dei Piombi, era a disposizione degli Inquisitori di Stato. Nelle Nuovissime, oltre il Ponte della Paglia, vi erano due camerotti chiamati blocco della Giustiniana.
Agli occhi d’oggi, colpirebbe l’arredo, visibile in uno stanzone grande chiamato “Città” e uno più piccolo detto “Castello”. Succubi di certe visioni distorte che principiarono nell’ottocento, ci si aspetterebbe di trovare duri tavolacci e ceppi di ferro; in realtà avremmo visto camere arredate con tavole e panche, quadri alle pareti di soggetto religioso, altarini dedicati alla Beata Vergine e a Sant’Antonio, con appesi ex voto d’argento, un altare per le messe, con addobbi relativi, pentole mestoli, il “fogher” per cucinare i viveri, un mastello un catino di ottone per far la barba e persino uno specchietto con la sua bella cornice. Poi vi era tutto il necessario per lavorare il tabacco, la cui vendita era assegnata in appalto a un “fratello”.
Chi vi fosse destinato (ma a volte erano i detenuti stessi di altre prigioni che chiedevano il trasferimento) veniva a far parte di una vera e propria confraternita o “scuola”, del tutto simile a quelle del mondo esterno, con scopi di regolazione dell’attività dei “soci” (in questo caso i carcerati), assistenza, promozione della devozione, e pratica dei buoni costumi. Tale associazione era tenuta per statuto a conservare i libri mastri gestiti da due cassieri, con le entrate e le uscite, il regolamento (le regole) con l’elencazione e la definizione dell’attività da svolgere. Essa faceva capo agli “avogadori de Comun” sorta di avvocati di stato, che curavano e tutelavano l’interesse pubblico nel giudiziario.
Al momento dell’ingresso, poiché valeva il principio che se eri carcerato dovevi pagarti le spese di mantenimento se non si era dichiarati indigenti, si doveva sborsare un ducato d’argento (un tributo alla “Beata Vergine”) per l’uso del materasso e di un armadio, e si era tenuti a sottostare alle regole di comportamento che vietavano ad esempio la bestemmia (sanzione) o l’attaccar brigar briga con chi passava all’esterno, dal “pergoletto” sorta di balcone rialzato, a cui si accedeva a turno. Se vi erano più di due detenuti a colloquio con le loro donne, e una di queste due fosse stata “di facili costumi”, si doveva cedere il passo alla coppia maritata. Quindi il detenuto era tuttaltro che isolato, ma partecipava alla vita della società esterna, sia pure diviso da sbarre.
La confraternita concedeva anche le privative come quella di “tener caneva” (vendere vino) produrre e smerciare tabacco o fare piccoli lavori per l’esterno (fabbricare e vendere “balle o ballini” non meglio identificati). I proventi (questi e gli altri) servivano alla vita della prigione, al mantenimento degli arredi, all’acquisto di legna da ardere, al mantenimento dell’illuminazione e dei lumini davanti alle immagini sacre e a qualche piccola sovvenzione ai più indigenti.
Poi venivano assunti, a volte anche da altri blocchi dei servitori, detti “libadori”, che si incaricavano di tener in ordine tutto, far le pulizie, vuotare i pitali di orina, rifornire di acqua le camere, fare e disfare i letti dei soci, lavare le stoviglie. Esentati da tante incombenze, i soci della confraternita, si dedicavano a qualche passatempo, il gioco delle carte fu ammesso fino a che non si produssero troppi alterchi e discussioni, o ricevevano visite, o “ciacolavano” con conoscenti e passanti dal balconcino a loro disposizione. Ma molto tempo era dedicato alla preghiera: alla sera al suono della campanella si radunavano per recitare un’Ave Maria, le litanie della Beata Vergine, un Salve Regina, il Si quaeris Miracula, il De Profundis, un Pater Noster, un’Ave all’angelo custode, a Sant’Antonio da Padova, a San Rocco. Poi per i benefattori, per gli agonizzanti, per la più povera anima del Purgatorio. Ma non era finita: da una scatola si estraeva il nome di chi avrebbe recitato le successive preghiere per tutti. Una per Santa Madre Chiesa, una per l’unione della cristianità, una per i bisogni presenti e, alla fine, una prece “per il mantenimento della nostra Serenissima Repubblica”.
Tutto questo, annota acutamente Giovanni Scarabello dal cui saggio ho tratto queste righe riassuntive, denota una popolazione abituata ad esercitare una sorta “di democrazia diretta”, per quanto atteneva il proprio vivere quotidiano. Per cui era loro facile, una vota finiti in un carcere che non precludeva i contatti col mondo esterno, ma ne era una emanazione, continuare a volersi sentire “soggetti” capaci e protagonisti, anche nella giusta espiazione della pena. La vera alienazione del carcerato inizierà nell’Ottocento con i metodi dello stato moderno, l’essere umano diverrà un numero all’interno di un sistema che distrugge ed estranea dalla società civile. Del resto anche il carcere è lo specchio e il frutto della società di oggi, come lo era di allora.
FONTE
STATO SOCIETA’ E GIUSTIZIA nella Repubblica Veneta
A cura di Gaetano Cozzi
La condizione carceraria alla Giustiniana di Giovanni Scarabello
Ed.ni Jouvence