GARIBALDI, IL MEA CULPA.
Nel 1868, dopo essersi dimesso disgustato dal Parlamento egli scrive da Caprera all’amica Adelaide Cairoli, e le spiega il motivo:
“Mi sono dimesso da un mandato divenuto ogni giorno più umiliante…mi vergogno certamente di aver contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzione!”. Pur riconoscendosi ancora fedele ai valori patriottici, riconosce che “le popolazioni liberate maledicono oggi coloro che li sottrassero al giogo del dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia, per rigettarli sotto un dispotismo più orrido assai, più degradante che li spinge a morire di fame…Ho la coscienza di non aver fatto male (sic! Quel che combinò da dittatore del meridione è l’anticipo di quello che farà il governo italiano poi); nonostante non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia”.