I “CAPELLETTI” MILIZIA NECESSARIA MA POCO OBBEDIENTE
MILIZIA
MOLTO PIU’ NECESSARIA CHE OBBEDIENTE
Nei Promessi Sposi il Manzoni ci dava un’immagine sia dei compiti che della triste fama che avevano questi cavalieri.
Il Provveditore Generale in Terra Ferma Benedetto Moro, nel 1607, così definiva il loro servizio in guerra e in pace: “Si è stimata questa cavallaria atta assai al correre et devastare i paesi rubbando et fuggendo più che combattendo. La introduttione sua in terraferma fu perché si perseguitasse e combattesse i banditi”.(1)
Anche altri compiti furono affidati a questi cavalieri. Il Provveditore di Peschiera, Lorenzo Donà, nel 1628, precisava: “Rondano ogni notte le mra di fuori, accompagnano dennari e cavallari pubblici e battono le strade per assicurar da gente di mal affare”.(2)
Dunque, una specie di polizia. Questi, appunto, furono i servizi svolti dalla compagnia di capeletti stanziata presso la fortezza di Palma, oltre che vigilare sulle diserzioni dei militari della guarnigione. Una terminazione del 1644 recitava: “Li cappelletti a cavallo siano tenuti…di in vigilare” alle fughe di soldati “con battere di continuo puntualmente le strade”.(3)
Per la cattura, vivo o morto, di qualche disertore o malfattore lo Stato corrispondeva un premio in denaro.
Nel 1615 Stefano “dal Piobico” e Girolamo “Massa” facevano parte della compagnia di cappelletti a cavallo del “magnifico et strenuo capitano Alvise Detrico”. I due, assieme ai loro ufficiali Mattio Paulovich, “luogotenente”, e Antonio Radinovich, “alfiero”, rivendicavano il “beneficio per l’occasione della captura del quondam Batta da Millano, già codannato alla morte…per monetario et per haver scalato le mure di Palma”. (4)
La taglia che ci si poteva aspettare si aggirava tra i 10 e i 25 ducati. Una discreta somma, se consideriamo la paga mensile del luogotenente, o dell’alfiere, che poteva essere di 15 ducati e quella di un soldato di 10.
La cattura del falsario e disertore portò qualche soldo nelle tasche dei cappelletti, mentre Battista da Milano chiuse tragicamente la sua esistenza “morto sopra un eminente forcha”.
Dunque, per i compiti che i cappelletti svolgevano erano odiati dag li altri soldati e mal tollerati dalle popolazioni civili, ma spesso lodati dai rappresentanti veneti. nel 1602 Niccolò Sagredo. Provveditore Generale in Palma, di loro scriveva: “E’ una milizia molto più necessaria di ogni altra, più obbediente e dalla quale se ne cava ottimo servitio”.(5)
Ma chi erano questi temibili cavalieri? Prima di tutto cappelletti era il nuovo termine seicentesco per definire gli “stradiotti”, cavalieri di origine greca, o balcanica. Il nome derivava dal berretto che indossavano.
In Terra Ferma nel corso del XVII secolo il loro numero variò dai 600 ai 900 uomini, rappresentando, generalmente, più del 50% delle truppe montane. Dovevano essere tutti rigorosamente stranieri, affinché non avessero legami con popolazioni locali.
Di una compagnia di 25 uomini nel 1608 rileviamo le provenienze: capitano e loguotenente erano di Zara, mentre l’alfiere era di sebenico. Sei soldati erano pure di Zara e altrettanti erano gredi di “Napoli di Romania”. Poi, tre venivano da Sebenico e due erano Albanesi, senza identifica. zione della città, o zona di provenienza. Infine, uno proveniva da ciascuna delle seguenti località: Cattaro, Malpaga, Macarsca, Spalato, “Pigmente”, Scutari.
Nel 1622 la compagnia, comandata dal capitano Zuane Geremia, vedeva il luogotenente “Giulio Cipei da Spalato”, l’alfiere “Ellia dai Castelli” e 59 soldati, così suddivisi tre da “Poglizza”, quattr2o da Traù, tre da Sebenico, due da “Lesena”, due da Zara e uno da “Zara vecchia”, due da “Pingnente”, tre da Macarsca, due da Spalato, tre da Almissa, due da “Morter”, due da Lubiana, tre da Castelli, due da “Allepanto”, uno, ripettivamente, da “Zabodiglia”, da “Possedaria”, da S. Croce, da Clissa, da “Narente”, da “Carlistot”, da Cattaro, da “Primorgie”, dal “Montenegro”. Poi, undici, pur non avendo indicazione di provenienza, denunciavano dal cognome una sicura origine slava, e tre potevano, ma non necessariamente, essere italiani. Infine, uno era di “Turchia” e un secondo da “Borgogna”.
Non essendovi ancora un’uniforme prescritta dallo stato, è certo che all’interno di una stessa compagnia, vista l’etereogenità delle nazionalità, l’abbigliamento doveva essere vario, colorato ed esotico.
Nel 1608 trovo la descrizione di due cappelletti zaratini, uno portava una “casaccha di moltolina bianca alla capelletta, braghesse rosse di pano, con capello alla croata et sopra vesta di zambolotto” e l’altro indossava una “casaccha di panno verde alla capelletta, una sopra vesta di panno rosso, con le maneghe della casacha simile, braghesse alla capeletta di panno verde, un capello di lana di color roano, non molto alto e senza pena”.(6)
Nel 1626 il guardaroba del cappelletto Georgio Cordichg di Spalato annoverava i seguenti abiti, una “croatta ditta giurdia (7), verde senza maneghe nova di panno, fiodrata di tella”; una “casaccha rossa con maneghe di panno rosso con bottoni di argento”, un “paio di braghesse di tella”, vecchie, “due para di calcette di tella di canevo”, due “camise di lino usade”, un “tabarro vecchio negro di baracon, fiodrato di rassa negra”. (8)
Spalatino era pure il ventenne Pietro Radelich, di presidio in Palma nel 1657. Anche per lui, ci rimane la descrizione degli abiti, anzi dei migliori indumenti che possedeva. Infatti, era stato abbigliato per l’ultimo viaggio, perché colpito mortalmente dall’arma da fuoco di un suo commilitone. Il corpo di Pietro era disteso in una stanza del quartiere militare “sopra un paro di banconi” ed era vestito “ con sopraveste di di damasco pavonazzo, guarnita con alamari d’oro et argento, braghesse rosse di bavellino, calze di bavella turchine, scarpe di marochino con fiocchi neri, e gioia in testa”.(9)
Talvolta questi soldati indossavano gli “opancici”, caratteristici calzari fermati da stringhe di cuoio che venivano avvolte sopra le caviglie.
Non solo l’abbigliamento, ma anche la lingua in una stessa compagnia doveva essere una congerie di espressioni nazionali. Il che rendeva complicati i rapporti con la gente del territorio dove questi soldati erano di servizio.
Spesso al seguito della compagnia c’era un capellano che aveva anche la funzione di nterprete.
Nel 1606 “Zorzi Havotinich,”capelan de’ cappelletti”, tradusse per l’Inquisitore l’interrogatorio del soldato Nicolò Paulovich di “Tavarino”(10). Nel 1626il quarantenne Joanne Paulovich di “Tavarino”(10), “dalmatus e soldato a cavallo di cappelletti”, fu interrogato “mediante reverendo padre Martino Tomichg de Zara veteri, commissario in fortilitio Palmae pro natione sclabonica et dalmatica, eius interprete”.(11)
L’armamento dei cappelletti veniva così descritto a fine del ‘500: “il Crovatto porta il giacco in logo di corsaletto e ha le maniche forti, la celata, la targa, ….spada alla centura…ha da una parte, sull’arcione, l’archibugio picciolo e dall’altra un coltellaccio di molta larghezza, curto e pesante,…usa lancia ben lunga, ma men grossa dell’huomo d’arme”.(12)
Ben presto i capeletti abbandonarono lo scudo e la lancia e si dotarono, oltre che dell’archibugio, di pistole da fonda. Cingevano una sciabola curva all’uso orientale, o la schiavona, una caratteristica spada a cesto. Avevano anche infilati in una fascia in vita uno o più coltellacci. In guerra i cappelletti venivano dotati di petto e schiena a botta. Ma, al posto della corrazzatura, o sotto di essa, potevano indossare dei giacconi di cuoio.
Dal testamento di Zuane Baidanriel di Giavarino sappiamo che possedeva una “simitarra”, un “arcobuso a roda longo” e un “terzariol con la sua fonda”(13) Mentre, nel 1626, Giorgio Cordichg era armato con una scimitarra, “un pugnal”, un “archibuso da roda curto” (14) e possedeva u n altro archibugio a ruota.
Dalla descrizione di Zorzi da “Carlistot” (1657), possiamo farci un’idea di come potesse essere vestito e armato un cappelletto fuori servizio. Egli portava “braghesse, gabana alla sua usanza, turchina” ed era cinto alal vita da una “fassa a cordoni, rossa”. Essendo a piedi, aveva tolto dalle fonde le pistole, infatti aveva le due “terzette alla cintura, una per fianco sotto la gabana ma le avanzavano fuori perché erano longhe e la gabana era curta”.(15) In mano teneva “il carabino” e la bandoliera sosteneva la spada.
L’unità in cui venivano inquadrati i cappelletti era la compagnia di una cinquantina di uomini, ma anche di numero inferiore. Infatti, mal sopportavano di essere riuniti in compagnie maggiori, essendo piuttosto autonomi nella disciplina.
La “Parte” del 23 settembre 1603 ordinava ai “Rettori delle città et terre” in cui si trovassero “compagnie dei soldati cappelletti, così a piedi, come a cavallo”di non alloggiarli “unitamente tutti in un sol luogo”, ma dividerli e sistemarli in “più comuni, assignado, di volta in volta ragionevole quantità a cadaun luogo”(16) secondo le necessità del servizio.
La compagnia era comandata da un capitano, che, come segno distintivo, generalmente impugnava una mazza ferrata.
Zorzi Cazich, con tutta probabilità capitano) morì nel’aprile 1700 e le sue cose furono divise tra i tre figli. L’abbigliamento non era assai dissimile da quello incontrato nei decenni precedenti. Possedeva una “casacha di panno con bottoni d’argento”, due “coletti di dante”, (17) un “paro di braghesse di pelle”, dodici camicie, una “fassa di seta con con merli in argento”, un “tabaro di Salinichio” e un “paro di stivali”. L’armamento era in linea con i tempi, infatti lasciò in eredità due spade, una “spadina con suo pendon di seta” uno “schioppo di azzalin”(18), un “paro di pistole de azzalino” e due, ormai fuori moda ma sempre utili, “schioppi di roda”.19)
Di una compagnia del 1622, comandata dal capitano Zuane Geremia, posso indicare sia i quadri, che il soldo percepito. Il capitano riceveva 35 ducati al mese, paga che comprendevai dieci ducati del “ragazzo”, poi c’erano il luogotenente e l’alfiere a 15 ducati ciascuno e 59 soldati a 10 ducati cadauno. Nel 1619 Matthio da Sebenico svolgeva anche l’attività di “spadaro”. Spesso tra i soldati c’era anche chi operava come maniscalco.
Ogni unità doveva essere dotata di una piccola ed elegante bandiera (“cornetta”). Nel 1618, ad esempio, il capitano Marco Dobbravich a sue spese fece confezionare ad Udine “la corneta”.
Un’ulteriore testimonianza che la bandiera dovesse essere di proprietà del capitano, viene dal testamento del 1690 del capitano Zuanne Marichg che lasciava all’erede “mobili, denari, argenti, oro, crediti di compagnia, cavalli, forni menti, armi et anco l’insegna, essendo di sua ragione”.20)
Per i segnali era presente, ma forse non era la regola, un trombettiere. Nel 1679 trovo “Matio Oberfel, trombetta della Compagnia dell’ill.mo signor conte Zuanne Rados di cavalleria” capelletta.
I cappelletti montavano, generalmente, cavalli di piccola taglia.
La cavalcatura era proprietà individuale e incideva parecchio sui bilanci personali. Il già citato capitano Christoforo Ongaro, il 27 luglio 1619, acquistò un “cavallo lejardo”21) per “scudi 55, a pagar i doi paghe alla fine di luglio et agosto prossimo” (circa 65 ducati, praticamente due mesi interi di paga). Egli fu abbastanza rispettoso delle scadenze. Il 31 luglio “contò a bon conto” 30 ducati d’argento, poi, il 20 settembre, saldò il debito. il 15 ottobre acquistò un “poledro sauro chiaro de doi ani e mezzo”22) sempre per ducati 30.
Il soldato doveva provvedere alla rimonta, nel caso la cavalcatura venisse giudicata inadeguata. Per questo motivo il “capitan Nadal Teodosio de cappelletti a cavallo” concedeva prestiti per l’acquisto degli animali, desiderando che i soldati “rollati” nella compagnia fossero “forniti di buoni e sofficienti cavalli”.23)
Nel 1676 Filippo Zulianovich, soldato del Teodosio, comperò un “cavallo sauro con stella in fronte” per “doble sedici”24) (circa 77 ducati) con il consenso e prestito del capitano, che avrebbe trattenuto mensilmente sulla paga dello Zulianovich, poco più di due ducati e mezzo. Anche Zuane da Carlstot, della stessa compagnia Teodosio, sostituì il cavallo comperando un “leardo chiaro, detto Seghetto”. Lo pagò “doble” 20, parte in contanti e parte trattenute sulla paga.
Non sempre facili furono i rapporti tra questi soldati e la comunità, sia per il loro comportamento che per il peso economico che i comuni dovevano sostenere nell’alloggiarli.
Nel 1610 rilevo che i comuni avevano l’obbligo di apprestare il “coperto per loro et cavalli”, “legna da abbruciare”, dotare i soldati di “pagliazzi” per dormire, mentre il capitano ed il luogotenente di letti completi, e fornire pure la “paglia per fare letto” ai cavalli.
Gli alloggi, inoltre, dovevano essere dotati di “banche, o vero scagne, da seder” e di “pignate da cusinare”.
Qualsiasi cosa i cappelletti avessero preteso, dovevano pagarla a prezzi “corenti nelli luoghi e ville in cui stavano”.
Se poi, come doveva accadere frequentemente, i cappelletti avessero usato “alcuna esorsione”, o “tentato con minacce ò altri mezzi illeciti” di ottenere altre cose, “oltre alle sudette, overo non volessero pagar quello che havessero avuto”, i comuni erano tenuti “immediatamente a denuntiarli”.
Nel decreto a stampa 10 novembre 1621 il Provveditore Generale in Terra Ferma Andrea Paruta ordinava che al cavalleria fosse “per l’avvenire” alloggiata nelle caserme presenti nelle città.Ciò per due motivi: il primo perché non vi era stata giusta rotazione nelle varie provincie, gravando perciò più su una che su un’altra; secondo per evitare, recitava il proclama, la “molestia, che gli soldati alloggiando in campagna sogliono apportar ai sudditi, mentre, per difetto delle habitat ioni, o per mancamento di denaro, non possono supplir così prontamente a quanto ricerca il besogno de soldati”.
Nelle città al capitano di compagnia sarebbero stati corrisposti, oltre alla paga, quattro ducati al mese per “provvedersi d’abitationi et di tutte le cose”. A ciascuno degli ufficiali, a condizione però che alloggiasse nello stesso quartiere con i soldati, sarebbero stati elargiti due ducati mensili. Ai soldati sarebbero state assegnate “stalle et habitationi” gratuitamente e i “territorj, per “ogni due soldati”, dovevano mettere a disposizione “un paro di cavalletti, con le sue tavole, un pagliarizzo, una schiavina, un tavoliere e doi scagni”. Dunque, erano letti a due piazze, cosa comune a quel tempo. Infatti, si partiva dal presupposto che uno dei due occupanti fosse in servizio, mentre l’altro riposava.
Stalle, alloggi e materiali dovevano essere consegnati ai “forrieri” delle compagnie, i quali alla partenza avevano l’obbligo di restituire tutto in buono stato. In caso di “mancamento di alcuna cosa”, il suo valore sarebbe stato trattenuto dalla “prima paga”.
Le tesorerie della citta, dovevano poi sborsare 8 gazzette (16 soldi) al giorno per ogni soldato, il “doppio agli ufficiali e per tre cavalli ai capitani”.
Tale somma era elargita per il mantenimento dei cavalli, con la clausola che “soldati non trovati con i suoi cavalli alli lochi destinati”, non avrebbero conseguito alcun beneficio, anzi sarebbero incorsi nelle “pene stabilite in questa materia”25) dal Senato.
Verso la fine del ‘600 i cappelletti tendono a scomparire, ma non nei loro compiti, né nella loro composizione, bensì nel nome.
In una seri di documenti degli anni 1689-90 uno stesso reparto di questa cavalleria viene nominato, indifferentemente, “cappelletti a cavallo” e “crovati a cavallo”. Quest’ultimo sarà il termine con cui verranno inquadrati i cappelletti nel corso del ‘700.
Alberto Prelli
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Note
1) Claudio Povolo aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Sec. XVI-XVII in Gaetano Cozzi, “Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta”, jouvence , Roma, 1980 p.210
2) AMELIO TAGLIAFERRI (a cura di), “Relazioni dei rettori veneti in terraferma”, Provveditorato di Salò e Peschiera, vol. X, 1978, Giuffré, Milano, p. 344.
3) ENNIO CONCINA, “Le trionfanti armate venete”, ed. Filippi Venezia, 1972, p.80
4) Archivio di stato, Udine, Archivio Notarile antico, notaio F. Deciano, b 3357, fasc. “Extraordinarior quartus”, c5 v.
5) ALBERTO PRELLI “Le milizie venete in Palma” 1593-1797”. Chiandetti, Reana del rojale, 1988, p.30
6) Archivio di stato Venezia, senato, dispacci Udine e Friul, fz. 4 disp. 8.4.1608.
7) Specie di giacca
8) A.S.U. A.N.A. notaio G. B. Pascolo, b 4382, testamento Giorgio Cordichg 19.1.1627.
9) Archivio storico stati provinciali Gorizia, atti giudiziali Strassoldo, fasc. 1211.
10) GIUSEPPINA NINCHELLA. “l’inquisizione a Palma 1595-1650 – una presenza difficile”. “Appunti di storia”, volume X. Palmanova. 2003 p. 135.
11) Ibid pag. 163.
12) MARIO SAVORGNANO “Arte militare terrestre e marittima secondo la ragione e l’uso dei più valorosi capitani antichi e moderni ecc.”, presso Sebastiano Conti, Venezia, 1614, pp. 21/22.
Il giacco era la cotta di maglia di ferro, il corsaletto era la corazza; “homo d’arme” era il cavaliere corazzato e faceva parte della cavalleria pesante.
13) A.S.U. A.N.A. notaio B. Pascolo, b. 4382, testamento Zuane Bandanriel 8.11.1619.
14) C.sopra, testamento Georgio Cordichg 19.1.1627.
15) A.S.S.P.G. –atti giudiziali Strassoldo, fasc. n. 1211.
16) Biblioteca seminario Arcivescovile Udine, Missc. XII-H-124, p. 204
17) Ampia giubba di cuoio.
18) “Azzalin” o “Azzalino” arma da fuoco con meccanismo a pietra focaia.
19) ASU ANA Notaio G. Clarotto, B. 3363 fz 1700.
20) ASU ANA Notaio B. Comino, b. 3361 protocollo 1687 – 1694. atto in data 1690.
21) Cavallo dal mantello bianco-nero.
22) BSAU, archivio antico ospedale, bilanci Martinoni p. 882.
23) Le citazioni relative all’acquisto e costi dei cavalli sono tratte da: ASU, ANA, Notaio G. D’Ischia, b 3362 fasc. Liber Abbreviatorum 1675-76-77.
24) 1 dobia = lire 29.
25) Tutti i corsivi che si riferiscono al Proclama 10.11.1621 sono tratti da ASU, Famiglia Caimo, b.64.