LA SINISTRA CHE VUOLE UN VENETO SENZA VENETI
La Sinistra e il venetismo senza Veneti. Un articolo esemplare comparso quasi dieci anni or sono in una rivista on line, che spiega in maniera chiara la nuova alleanza attuale tra papa Francesco migrazionista e la sinistra estrema. E, aggiungo io, con il capitalismo alla Benetton unito alla finanza senza frontiere rappresentato da Soros. Tutti alleati per distruggere le Nazioni storiche. Da Casarin .. a Benetton.
Il tema dell’identità “territoriale” sta assumendo una valenza sempre più importante, politicamente, ora che siamo al bivio obbligato fra il modello Multietnico e Multiculturale americano, e quello Indigeno europeo.
Vorremmo brevemente analizzare una apparente “giravolta ideologica” di alcuni circoli della sinistra post-comunista veneta su queste tematiche perché le riteniamo di assoluto interesse in merito al dibattito odierno; riteniamo interessante svelarne presupposti e conclusioni anche per mettere in guardia gli ambienti indipendentisti ed autonomisti dalla diffusione di queste teorizzazioni pseudoidentitarie.
Un dato di partenza incontestabile che oggi interroga il pensiero progressista è il distacco politico delle “classi subordinate” nei riguardi dei partiti di sinistra sui temi dell’immigrazione. Sia sul fronte del mondo del lavoro che su quello della sicurezza operai e dipendenti hanno più volte dimostrato di non seguire i tradizionali referenti abbracciando, con disinvoltura, rivendicazioni apertamente ostili e votando a più riprese partiti di destra o populisti.[1]
Di fronte a queste evidenza sulla presunta “mancanza di una coscienza di classe” dei ceti popolari la sinistra ha assunto sostanzialmente due posizioni alternative: l’indifferenza rinunciataria, ovvero la rinuncia alla ridiscussione della linea dal basso su questi temi, e il tentativo embrionale di fagocitazione della rivendicazione autonomistica, svuotandone i contenuti dal “di dentro”. Mentre l’atteggiamento dell’indifferenza altro non è che la continuazione della vecchia certezza elitaria sull’immaturità del popolo (quando dimostra autonomia culturale rispetto ai suoi autoproclamati “interpreti”), lo scimmiottamento autonomista dei post-comunisti rappresenta invece una novità interessante. Si distingue per una caratterizzazione ideologica attiva, di fronte al desolante vuoto delle categorie interpretative lasciato dagli indifferenti, dopo la caduta degli schemi introdotti dalla globalizzazione selvaggia[2]. Questa “corrente” è formata da amministratori ( i proponenti del “Partito Democratico del Nord” come Cacciari, Chiamparino, Giaretta) e nuovi outsider del movimentismo new global/no global rappresentati da Luca Casarin. Entrambi stanno introducendo i temi dell’autonomia politica, dell’autogoverno, e di una retorica federalista, all’interno della sinistra italiana. Ma lo fanno, e adesso cercheremo di vederlo, a modo loro.
Possiamo soffermarci su un paio di documenti per rintracciare i caposaldi di queste posizioni. Il primo a proposta alla direzione del PD Veneto, formulata dal sen. Giaretta nel gennaio 2008, di un manifesto dei valori del PD sulla “venetitudine”, dal titolo “Per un nuovo patriottismo veneto”, poi rigettato dalla direzione stessa[4].
In essa viene propugnata una nuova concezione organizzativa “federalista” del partito in cui l’idea di Patria Veneta venga fatta discendere dall’adesione ad un “civismo costituzionale” e “all’adesione ai valori della tolleranza, del multiculturalismo e dell’accoglienza”. In altri termini, la proposta mirava ad introdurre un nuovo concetto di Patria Veneta che nasce dalla strenua opposizione tra cultura e natura nell’ambito politico. La Patria sognata dal PD di Giaretta non è altro che un’idea. La quale, per inciso, può essere fatta propria da chiunque e da qualunque latitudine[5] provenga senza alcuna particolare solidarietà con il territorio che la esprime. Nella discussione al manifesto viene scandita a chiare lettere l’esigenza di autonomia politica per il Veneto, a patto che lo stesso divenga un semplice contenitore informe multiculturale, multietnico, multitutto: in una parola privo di identità propria. Una volta svuotato di se stesso e dei suoi abitanti originari, al Veneto gli si può concedere di tutto.
In linea con questa impostazione è anche la proposta di revisione dell’articolo 2 del Titolo I° dello Statuto della Regione Veneto, in particolare nella definizione di Popolo Veneto che il PD ha proposto in netta opposizione alla bozza del centro-destra: “il Popolo Veneto è costituito da tutti coloro che vivono e lavorano all’interno della Regione Veneto”. Dal vigente articolo dello Statuto[3] verrebbe così tolto ogni riferimento alla storia, alle caratteristiche proprie, alla tradizione veneta, all’idea stessa di comunità che trascende una accozzaglia informe di individui recintati temporaneamente fra il Garda e la Livenza. E’ pacifico l’intento di svuotare l’idea (se non il senso stesso delle parole) di Popolo attribuendone l’appartenenza anche a chi per definizione non è parte del Popolo Veneto, ovvero gli immigrati (italiani o extracomunitari). E’ in atto, a ben guardare una sorta di “ripulitura semantica” della terminologia che indica Identità, Continuità, Tradizione.
Ma se questi sono i timidi tentativi di qualche settore dirigenziale del PD di elaborare proposte e nuovi valori mondialisti tinteggiati di “autonomismo”, l’esperienza più significativa esce dal variegato mondo del movimentismo new/no global, ed è salita alla ribalta della cronaca con la partecipazione del leader dei disobbedienti Luca Casarini ad una manifestazione in favore della lingua veneta svoltasi a Venezia lo scorso anno.
Per la verità alcuni centri sociali di Padova e Mestre già da qualche anno utilizzano innaturalmente le bandiere di San Marco per manifestazioni pro-immigrati e pro-zingari, e questa uscita di Casarini ne è par alcuni versi la spiegazione. In una lettera indirizzata agli ex-compagni, che circola su Internet, l’ex disobbediente chiarisce la necessità di nuove prospettive per l’area antagonista. Constata che siamo “in un’epoca di grandi trasformazioni epocali, [e] dovremmo abituarci a vagare un po’ nel vuoto, rischiando sempre di cadere. Stare fermi non si può, non ha senso e gli spettatori divertiti sono i peggiori”. E allora decide di rendere visibile l’incontro ed il confronto avviato con il gruppo di “Raixe Venete” qualche anno addietro, rimarcando l’effetto di “ripensamento” scaturito nelle discussioni fra le file venetiste, e l’aver stimolato questi ultimi “ad interrogarsi anche su altre cose che non fossero solo il loro originario, e secondo me perdente e pericoloso se non esce da alcune ambiguità, modo di pensare”. In che cosa consiste questo ripensamento? In primis il fatto di averne portato alcuni ad affermare che “essere veneti non è una questione né etnica, né biologica.”
Per di più visto che il problema del mito nella società simbolica bisogna porselo, lasciando in soffitta il vecchio strumentario di strutture e sovrastrutture, Casarini svela il suo: l’intuizione che “l’utilizzo di simboli storici, tipo il leone di S. Marco, per battaglie contro il razzismo, fosse non solo intelligente, ma giusto”. Fuori di metafora, i bengalesi o i mori strappati con la violenza tirannica del libero mercato globale alle loro terre, diverrebbero miracolosamente le nuove preziose genti marchesche da catechizzare, essendosi stufato di quelli che già stanno qui, sulla terra degli avi, ab immemorabilia. L’autonomia politica, la simbologia marchesca, la lingua veneta e le rivendicazioni culturali vanno bene… purchè si riferiscano stranamente a dei non veneti.
“Se essere veneti, nel senso che dava Cesare Pavese a questo concetto di “appartenenza”, cioè per scelta, e non per sangue, significasse essere storicamente per la mescolanza tra le genti….. assumerebbe una luce diversa da quella un po’ ammuffita che hanno ora”.
La chiosa del nuovo cursus movimentista (o almeno di parte di esso) è tutta politica: “Come dice IL COMANDANTE Marcos, sono per l’autonomia, non per la secessione. L’idea di una battaglia autonomistica, in cui un reale federalismo si costruisca contro le piccole patrie della Lega, non è certo nuova, o mia. Con Massimo Cacciari, già nel 1998 quando si parlava e si provava a capire come rispondere a questa spinta globale verso nuove forme stato, compilammo il “manifesto delle autonomie”…
Dobbiamo quindi tornare a monte: per la sinistra post-comunista oggi come un secolo fa cultura e natura dovranno viaggiare rigorosamente separate se non in aperta contrapposizione.
L’identità etnica scompare, magicamente sostituita da scelte individuali; masse informi di individui girovaghi, i migranti appunto, comporranno e ricomporranno incessantemente le popolazioni dei territori senza vincoli né legami col suolo che li ospita.
Il nuovo Veneto che rivendicherà autonomia e libertà politica sarà un infernale melting pot, un crogiuolo di etnie il cui unico minimo comun denominatore è l’assenza di un qualsiasi legame solidaristico col territorio su cui vivono e con le generazioni passate.
Per questa sinistra utopista l’ibridazione, il meticciato, la mescolanza sono il motore indispensabile allo sradicamento della comunità naturale, e quindi vanno favorite. Una volta svuotato il Veneto dai Veneti, sarà possibile una nuova ricostruzione simbolica, storpiata o inventata ad arte. L’uso strumentale della millenaria bandiera di S. Marco e la rivendicazione culturale sganciata dalla comunità cui si riferisce non ha una valenza tanto differente da quella che in commercio ha la pubblicità ingannevole.
Decontestualizzare aspetti di una cultura dal Popolo che le ha generate è anche metodologicamente sbagliato.
Di fronte a questi travisamenti vanno ribaditi i punti fermi del pensiero identitario europeo e di quello differenzialista in particolare. Fra l’individuo e l’umanità esiste una dimensione intermedia, plurale, in cui si collocano le comunità umane, le etnìe e tutti i vari raggruppamenti che hanno generato le diverse culture, e che sono alla base del principio del “differire”. Queste differenze, pur non essendo assolute ed immobili, sono continue nel tempo e stabili nel territorio. Queste differenze sono ciò che rende il mondo plurale, vario e degno di essere vissuto.
(….)
Occorre insomma accettare che anche il Popolo Veneto è una entità bio-culturale, in cui la cultura è strutturalmente intrecciata alla natura. Questa comunità ha il sacrosanto diritto ed il sacrosanto dovere di lottare per la propria autonomia ed indipendenza politica, al fine di preservarne la specificità.
Immaginare un Veneto crogiuolo di etnie, mescolanza di sradicati dei cinque continenti, in perpetua antitesi con la sua storia e la sua continuità spazio-temporale, è invece l’ultimo delirio di una ideologia mondialista che avendo perso il voto dei ceti popolari veneti sta lavorando attivamente alla loro punizione con la più radicale delle soluzioni: la sostituzione etnica. Il travestimento pseudo-autonomista di questi “globalizzatori dei diritti” non nasconderà l’inbroglio ideologico, nè l’essenza del discorso, fin quando Noi Veneti avremo la capacità di riconoscerci per ciò che siamo sempre stati, senza strani esperimenti.