Il dipinto della Battaglia di Lepanto, a Montagnana.
di Zereich Princivalle
Il quadro che riproduce la Battaglia di Lepanto (m. 4,50 x 4,50), ad olio su tela, appeso alla parete sinistra nella prima campata – già sopra la porta laterale rivolta a mezzogiorno – a prescindere dal suo valore artistico, fu giudicato assai interessante da Guido Antonio Quarti, ben noto scrittore di storia navale, che lo pubblicò per primo, credo, quale opera di ignoto autore in uno dei suoi volumi.
Egli, scrivendo al Giacomelli, rilevava che il pittore doveva avere una notevole conoscenza storica della battaglia, che è riprodotta, come realmente avvenne, con le galee in combattimento a gruppi.
In primo piano è la flotta di Venezia al comando di Sebastiano Venier; più sopra quella di Spagna sotto Don Giovanni d’Austria. Un gruppo centrale riproduce il ricupero della capitana di Malta. E’ ben distinta a destra la fuga di Portaù pascià (barchetta che si salva attraverso le galee).
Sopra, nel dipinto a sinistra, la squadra di soccorso del march. di Santa Croce. Poi il particolare di Occhialì (Uluzzalì) che fugge dopo essersi affrontato con Giovanni Andrea Doria, riparadosi con poche galee alla Prevesa. In alto, a destra, è Lepanto con i due Castelli alla bocca del golfo; a sinistra, su nuvola, la Madonna del Rosario con Santa Giustina.
Il pittore doveva avere perfetta conoscenza dei fatti, perchè è anche da notare che tutte le galee cristiane hanno le vele ammainate; il mare è abbonacciato in favore delle armi crocesegnate; sono esatte le varie bandiere con i colori di raggruppamento e con gli stemmi particolari. Interessanti per l’archeologia navale sono le strutture delle galee, con la dimostrazione, non chiara altrove, dei banchi da rematori sporgenti dai fianchi delle stesse.
Indiscutibile quindi il valore storico del dipinto; ma qual è il suo valore artistico? Chi è l’autore del quadro?
Dalla esatta conoscenza storica che il pittore dimostra della famosa battaglia, sembrerebbe trattarsi un contemporaneo, di uno che, se non vi partecipò, la sentì per lo meno narrare da testimoni oculari. Pertanto riterrei queta tela dei primi decenni del secolo XVII; comunque essa non è posteriore al 1636, anno in cui, come appare da alcune note delle spese conservateci, fu fatta la cornice del quadro.
Sembra un pittore veneto, formatosi in quel periodo di fine Cinquecento, in cui si diffuse il “formulario linguistico e scenografico tintorettesco, … si andò costituendo quel linguaggio lagunare uniforme d’impianto titntorettiano, non senza contaminazioni bassanesche e veronesiane”.
Nell’ambiente artistico veneziano della fine del ‘500 infatti, operano, all’ombra dei grandi maestri, pittori minori: familiari, scolari, aiuti che ne ripetono gli elementi formali più facili da appredere e che, riunendo elementi attinti dal Veronese, dal Bassano, dal Tintoretto e limitandosi ad un accostamento occasionale degli spunti, vivono senza gloria alle spalle della grande tradizione veneziana.
Il nostro quadro sembrerebbe appartenere ad un pittore, formatosi appunto in tale ambiente; e verrebbe da pensare ad Antonio Vassilacchi, detto l’Aliense (1556 – 1629), figlio di un proprietario di navi, oriundo dell’isola di Milo, che fornì di vettovaglie l’armata cristiana nella querra del 1571, il quale dipinse per Montagnana anche un’altra tela “Il Salvatore e i Santi Protettori” ed amò trattare varie composizioni affollate di personaggi e diversi soggetti di battaglie terrestri e navali, compresa pure quella di Lepanto, come ad esempio negli affreschi – attribuitagli dalla Boccassini – della villa Barbarigo di Noventa Vicentina, presso Montagnana.
Discepolo prima del Veronese e poi del Tintoretto, egli si orientoò infine verso la semplificazione piatta e realistica che il figlio di quest’ultimo, Domenico, con la sua interpretazine, faceva dell’arte paterna, pur tuttavia continuando a mescolare ricordi veronesiani e tintorettiani ad elementi presi da Domenico e forse anche da Palma il Giovane.
Il gruppo della Madonna
del S. Rosario con S. Giustina sull nubi nello sfondo di navi e velieri, a sinistra della nostra tela, nella fluidità della linea, nella matronale nobiltà degli atteggiamenti e nella larghezza coloristica con intonazioni alquanto fredde (si noti però che tutto il quadro è molto sbiadito nelle tinte a casua della luce che lo investe per buona parte del giorno) ha qualche riflesso dell’arte di Paolo Veronese. Il resto della tela con la rappresentazione della battaglia in cui le galere si assiepano in un groviglio di remi, di insegne, di armi e di uomini azzuffantisi – teste protese, atteggiamenti concitati, gesti violenti, posizioni ardite di corpi aggirantisi, tortili, visti da ogni lato – rivela contatti col fare di Jacopo Tintoretto.
La spettacolosa scena è tuttavia pervasa da un’incessante riceva di movimento, attuato con espedienti alquanto artificiosi che rendono l’insieme eccessivamente tumultuoso e manifestano la preoccupazione del pittore di raggiungere effetti scenografici, conforme il gusto già pienamente secentesco.
In realtà egli riesce ad imprimere forza ai corpi e moto all’insieme, benchè le mille figurine siano piuttosto plastiche e rigide,
prive di vigore. In una parola, appare evidente l’intento di trarre ispirazione dalla foga dell’arte tintorettiana, ma la plasticità rigida di alcuni elementi indica il fare accademico del pittore, che rispecchia il complesso ambiente veneziano della fine del ‘500 e dell’inizio del ‘600.
L’atteggiamento spregiudicato, la fantasia scenica, l’audacia compositiva, che possiamo ammirare anche in questo quadro di Montagnana sono pure le caratteristiche più salienti dell’arte del Vassilacchi.
Riguardo all’autore, sembrerebbe Filippo De Boni, anche se non è nominato nell’articolo. La signora Luigina Pizzolato mi segnala l’esistenza di una pala a lui attribuita. – Pala di S. Carlo Borromeo (da un altare del Duomo), firmata da Giulio De Rossi pittore, abitante a Este (notizie accertate 1626-1639). È sicuramente l’autore anche della Battaglia di Lepanto in Duomo (1635).