LA CA’ D’ORO: LE TAPPE DEL RECUPERO
Singolare è il percorso attraverso cui Giorgio Franchetti riuscì nel duplice intento di recupero della Ca’ d’Oro e realizzazione della sua indescrivibile Galleria d’Arte.
Tutto cominciò con un telegramma dell’antiquario Michelangelo Guggenheim, che nel febbraio del 1896 lo raggiunse a Vienna, dove all’epoca il barone si trovava per i suoi impegni di concertista. Vi si leggeva una notizia esplosiva: per centosettantamila lire la Ca’ d’Oro poteva essere sua. Giorgio Franchetti, irresisistilmente attratto dall’idea, era però assillato da feroci perplessità, e per lui furono momenti di lacerante incertezza. Le centosettantamila lire richieste per l’acquisto costituivano certamente una proposta allettante, ma erano pur sempre una somma notevole, che per di più bisognava sborsare immediatamente per intero, allo scopo di evitare la concorrenza, già allertata. Inoltre il palazzo era ormai fatiscente e avrebbe richiesto ancora molto denaro per il restauro. Soprattutto, bisognava far accettare “la stravaganza” al padre, il barone Raimondo, al quale egli solo di recente si era riavvicinato, dopo un periodo di incomprensioni e freddezza. Tra di loro non c’era, infatti, molta affinità. Troppo concreto, pragmatico, affarista l’uno; viceversa, troppo sognatore, svagato, idealista l’altro.
Raimondo di fatto considerava inconcludente quel figlio dalla personalità complessa e tormentata. Appassionato di musica, compositore e pianista eccellente, ma restio ad esibirsi in pubblico, collezionistad’arte entusiasta e raffinato, ma disinteressato, istintivo, emotivo talvolta fino all’irrazionalità. E con preferenze alquanto bizzarre, se dopo il ritorno a Venezia nel 1891, alla nascita del primo figlio Luigi, nato dal matrimonio con la baronessina Maria Hornstein Hohenstoffeln, celebrato a Monaco nel 1890 , Giorgio si era rifiutato di risiedere nella dimora di famiglia, quel Palazzo Cavalli sul Canal Grande, a San Vidal, che il padre aveva acquistato nel 1878 e fatto ristrutturare dal famoso architetto Camillo Boito. Un restauro avveniristico. Troppo, secondo Giorgio. Interventi modernisti, innovazioni radicali e modifiche audaci avevano alterato fino a sconvolgerla l’originaria struttura gotica. La sensibilità artistica di Giorgio si ribellava a queste scelte e pertanto egli aveva deciso di abitare in una più modesta abitazione dall’altra parte del campo. Gesto che, come si può facilmente capire, andò a offuscare il clima di distensione appena instaurato. Insomma, il barone Raimondo non approvava affatto l’azzardato progetto del suo terzogenito e c’era il rischio che quest’ultimo non fosse in grado di sostenere la spesa.
Eppure, malgrado le resistenze paterne, e forse grazie all’appoggio della madre, la baronessa austriaca Maria Rotschild, Giorgio Franchetti riuscì ad entrare in possesso della prestigiosa residenza, in cui peraltro non abitò mai, avendola pensata fin dall’inizio con una diversa destinazione. Trasferitosi invece nel contiguo palazzetto Duodo, diede inizio ai lavori di recupero. Così, sotto la sua diretta sorveglianza, la casa fatta erigere quattro secoli prima da Marino Contarini, a poco a poco, ritornò quasi allo sfarzo originario, preparandosi ad accogliere degnamente la inenarrabile collezione d’arte che l’appassionato mecenate era andato approntando nel corso degli anni.
Come abbiamo detto, il grande merito di Giorgio Franchetti fu quello di voler riportare la Ca’ d’Oro al suo stato originario. E lo fece con caparbietà, precisione, competenza: non si limitò a commissionare un restauro “filologicamente corretto”, ma si dedicò con puntiglio a ritrovare e ripristinare quello che era andato disperso o smembrato, soprattutto per la scellerata incuria del Meduna. Cercando presso antiquari di tutto il mondo, potè così recuperare molto di quello che si credeva perduto, come la bellissima vera da pozzo dei Bon, potè ricostrure la scala del Raverti ricomponendola pezzo per pezzo e il portale verso la calle col “fiore” del Romanello. Poi rifece la merlatura mutilata, ricostruì l’atrio e chiuse le finestre che il Meduna aveva aperto senza alcun criterio…
E sin dall’inizio prese a intervenire personalmente nei lavori, in particolare nell’installazione dei sontuosi mosaici pavimentali del “portego da basso” a pianterreno: operazione , questa sì in bilico tra rigore filologico e slancio creativo originale. Perché nell’atrio di quella che era stata un’abitazione privata, per quanto ricchissima, ora veniva posizionata un’opera d’arte del tutto nuova, degna di una basilica, in una personalissima concezione del “bello” veneziano. Un “opus sectile” per cui Giorgio Franchetti si ispirò ai pavimenti di San Marco e ai mosaici cosmateschi, né si accontentò di marmi e pietre di cavatura moderna, ma volle marmi antichi, che fece arrivare soprattutto da Roma, privilegiando i più rari e preziosi.
Di quest’amoroso impegno hanno lasciato testimonianza diversi scrittori amici del Franchetti, con toni ammirati, ma sottolineando come fosse diventata quasi un’ossessione. E in particolare Gabriele D’Annunzio ci informa che persino lui fu chiamato più volte a collaborare attivamente, senza potersi sottrarre al compito. Figurarsi il Vate “imaginifico”, costretto a mettere da parte le sue sofisticate movenze da “arbiter elegantiae” per inginocchiarsi a terra, sporcandosi magari, a posizionare tessere di porfido e serpentino nello stucco…