IL TAGLIACARTE CON SAN MARCO PER UN BIMBO DEL 1955
Sono riprodotte opere di Gianni Berengo Gardin, Candido Spinazzi e di Cameraphoto… Diamo a Cesare quello che è di Cesare! Mi invita un lettore a scrivere i nomi degli autori degli scatti.
Più o meno era quell’anno. La mia mamma, la Iride, insieme alle sorelle Teresina e Cesira, (i nomi dal sapore antico delle donne venete di un tempo) decisero di fare una gita, dalla campagna padovana, fino a Venezia, luogo mitico che io avevo sentito solo nominare in famiglia con un misto di ammirazione e rispetto. Era il loro modo di festeggiare il 25 aprile.
Abitavamo in via san Marco, in una laterale di essa, nei pressi di Ponte di Brenta, e il giorno di san Marco, nella campagne di allora, era sentito ancora come festa popolare, che invano cercavano di coprire con la “Festa della Liberazione” anche se papà era un comunista (dopo una gioventù fascista, ovvio) in casa si festeggiava san Marco. Di quella gita, nel ricordo, è rimasto nella memoria il sapore di una città da fiaba, ancora dei veneziani, così strana e esotica, ma anche così “nostra”. E anche il souvenir che mi portai a casa, un tagliacarte che la mamma mi comprò in una bancarella, certamente non prodotto in Cina, e che a me pareva un temibile pugnale. E che mi accompagnò per qualche anno della mia residua infanzia.
San Marco allora era di casa, anche se non sventolavano gonfaloni nei cortili, ma era sottinteso che ci rappresentasse, e il prete non si dimenticava, nelle prediche del 25 aprile, di ricordarlo come evangelizzatore dei Veneti; non come oggi, che il prete bergogliano magari ti parla d’altro, ti parla in quel giorno di temi relativi all’accoglienza con sfondi arcobaleno.
Era sempre stato così, del resto. Anche oggi ne vediamo le testimonianze: nella toponomastica del triveneto, nei nomi delle chiese, su antichi capitelli; come quello Seicentesco in centro a Fonzaso, vicino a Feltre, dove un san Marco in forma umana saluta i viandanti. Per questo, mi dicevo anche ieri, in un momento di stanchezza (mi chiedevo se continuare o meno col mio modesto impegno di divulgatore di storia veneta), dobbiamo ricordare nella lunga storia dei veneti, quei 400 anni del “Dominio” in cui tornammo ad essere Nazione (allargata,confederata ad altre, ma nazione veneta) dopo i secoli di oblio seguiti alla caduta dell’impero romano.
Un piccolo nucleo di Veneti fuggiaschi dalla Terraferma, riaccese la fiaccola della storia nelle isole della Laguna, che ancora oggi arde in tutto il Triveneto, malgrado i tentativi di spegnimento continui da parte di uno stato centralista di stampo napoleonico.
Qualcuno si ostina a diffondere la versione che Venezia fu tutto, ma non fu mai capace di farsi stato: ma è la posizione dello storico radical chic, che si ostina a negare dignità ai Veneti di Terraferma, come popolo. Si ferma alle élites nobiliari dell’entroterra, che mal sopportavano di esser state esautorate dalla “talassocrazia” veneziana, che aveva tolto molti dei poteri con cui esercitavano il loro dominio feudale sulle plebi cittadine e rurali. Per cui il popolo vedeva in san Marco un protettore a cui immolare la vita, anche per questo. Il “Dominio” era in realtà “Terra di Libertà”come riconobbe persino Manzoni.
E lo dimostrò da subito, nella guerra di Cambrai schierandosi con le armi in pugno, con Andrea Gritti, sia nell’assedio di Padova, che nella liberazione del territorio. E poi negli ultimi giorni con le insorgenze denominate “Pasque veronesi”che coinvolsero il veronese, il bergamasco, il bresciano.
Questi imbonitori italiani centralisti odierni che negano l’evidenza di una Nazione coesa, durante i quattro secoli di vita dello stato veneto sono i discendenti della povera (per la fine che fece) nobile giacobina napoletana Eleonora De Fonseca Pimentel, la quale, vedendo dalla finestra del suo palazzo ,il popolo tumultuante invocare il ritorno dei Borboni, ebbe la faccia tosta di dire: “Loro non sono il popolo! Solo noi siamo la Nazione!”.
Ecco, continuiate pure a dipingerci come Veneti ignoranti, dare al termine “venetismo” il peggior significato possibile, dall’epoca dell’impresa del campanile, ma poi succede che nel 2017 il popolo nostro voti compatto almeno per un minimo di autonomia regionale, se al momento non è possibile altro. E se continuate a negare le nostre istanze, il conflitto sarà sempre più pesante.
E’ come se l’Italia volesse prepararsi in casa una nuova Catalogna. Le conviene?
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