LA CASSA “PEOTA”, LE ORIGINI ANTICHE. I “BONAVOGLIA”.
Un nostro collaboratore Gianni Chinellato parlava tempo fa dell’origine della “cassa peota” (ben conosciuta dai veneti in genere) restringendola alla città e capitale nostra, Venezia. In realtà era una tradizione ben radicata anche nell’entroterra, collegata però al traffico mercantile veneziano. Ecco cosa riporta Ivone Cacciavillani in una sua opera dedicata alla Terraferma veneta.
Fino a qualche anno fa, nell’entroterra veneto era una tradizione molto diffusa. In pratica, lo spiego ai più giovani, dei privati conferivano piccole somme in una cassa comune, da cui i soci, potevano attingere per le loro necessità pagando un tasso di interesse modesto. In pratica era un micro credito, senza le pastoie burocratiche e le garanzie onerose che poteva richiedere una banca.
Secondo lo storico Ivone Cacciavillani tutto sembra sia partito dall’ usanza di affidare della merce da rivendere ai “bonavoglia” arruolati nella marina veneziana per chiamata, o per ferma volontaria.
I paesani raccoglievano una somma (la Cassa Peota di allora) e con questa acquistavano della mercanzia (potevano essere ad esempio prodotti tessili finiti) che affidavano al futuro marinaio. Questi “scappoli” o “buonavoglia” potevano usufruire di un piccolo spazio nella stiva, dove poter stipare la merce da vendere nei porti del Mediterraneo, senza pagar dazi.
Poteva capitare, ci racconta ancora Cacciavillani, che al congedo, il paesano, per il successo avuto nell’impresa commerciale, a nome della comunità, e grazie all’aurea di uomo “che gaveva visto el mondo” fosse pure eletto a sindaco, allora detto “meriga” o “degan” o “massaro”.
Un altro particolare curioso: la leva obbligatoria era legata in genere a particolari patti stipulati con la Comunità ed era definita “dazione“. Ogni nucleo di uomini richiesto (tutti scelti dalla Comunità stessa) veniva designato col termine di “caretada“. E’ facile intuire che ci si riferisse alle carrette che li portavano via dal paese, fino alla capitale, Venezia.
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