la Repubblica fu federale ed autonomista e non tirannica. Renzo Fogliata
di Renzo Fogliata
Inviata al Gazzettino in risposta alla lettera del Dott. Daniele Trabucco dal titolo “Serenissima federalista? In realtà fu uno stato accentratore e tirannico, una vera e propria ‘Repubblica dei privilegi'”, pubblicata il 29/11/2005
Illustre Direttore,
non posso più tacere di fronte ai ripetuti asserti del “collaboratore presso la cattedra” dr Daniele Trabucco, che destano, ad un tempo, imbarazzo ed una vena di tristezza.
Imbarazzo. E’ improbo affrontare una tale miscela di luoghi comuni, tanto confusi quanto infondati. Come spiegare, a chi si definisce “giurista”, che, per comprendere quanto incredibilmente ampia fosse l’autonomia che la Repubblica Veneta accordava nel suo Stato, è sufficiente considerare che ad ogni luogo essa lasciava non solo integri gli statuti cittadini (dunque, l’amministrazione) ma persino la scelta dell’ordinamento giuridico civile: mentre a Venezia si applicava il diritto veneto, in quasi tutte le città di terraferma vigeva il diritto romano? Nello stolto odierno statalismo ciò sarebbe impensabile e scandaloso. Come ricordare che ogni comunità conservava gelosamente i propri fondamenti civili, anche giuridici, e le proprie tradizioni, che non venivano tollerati, bensì incoraggiati e tutelati ? Infinite sono le fonti normative in proposito. Negarle, contrapponendovi nulla più che proclami ideologici, è davvero sconcertante.
Come spiegare che il grado di liberalità di un regime dev’essere valutato con lo spirito del tempo, non certo con i parametri di duecento anni dopo? In allora, San Marco era uno degli stati più liberi e liberali d’Europa. Gli ebrei soffrivano limitazioni – come ovunque all’epoca – ma, a differenza che altrove, lo strumento contrattuale che la loro Comunità “stipulava” periodicamente con la Repubblica contemplava per essi innumerevoli libertà. Quella Comunità non solo prosperò per secoli, ma per secoli cercò ed ottenne rifugio proprio a Venezia. Nella seconda metà del Settecento, gran parte della marina mercantile veneta era in mani ebraiche e gli ebrei erano muniti di patente per viaggiare con il veneto paviglione. Colui che difenderà appassionatamente la memoria della Repubblica dalle calunnie francofile sarà lo storico ebreo Samuele Romanin. Colui che imporrà ai moti del 1848 un’impronta legata all’indipendenza veneta, nel ricordo della Serenissima,anziché all’unità d’Italia, sarà Daniele Manin, figlio di genitori ebrei.
Come chiedere al “collaboratore” di spiegare quella sua stravagante congettura sull’aumento della pressione fiscale a suo dire perpetrato dalla Serenissima? Lo sfido ad esibire una sola fonte seria in tal senso. La Repubblica aveva un sistema di imposte dirette tra i più miti – se non il più mite – d’Europa.
Come rivelargli dunque, senza trauma, che fu, al contrario, proprio il “vento della rivoluzione francese” – da lui in tal guisa apologicizzato – che portò ad un incremento della pressione fiscale, nel solo periodo compreso tra la perdita dell’indipendenza veneta ed il 1812, nella devastante misura, insopportabile ed inimmaginabile, di oltre il 780 per cento; al dimezzamento, dal 1797 al 1805, del numero dei bastimenti muniti di patente (da 600 a meno di 300); al collasso dell’Arsenale e del porto; ad un’emorragia della popolazione passata dai 140 mila abitanti del 1797 ai 100 mila scarsi rilevati nel 1820; ad un proliferare di mendicanti che improvvisamente divennero schiere di decine di migliaia; alla coscrizione obbligatoria che spopolò le campagne e, nella demenziale campagna di Russia di Napoleone, condusse alla morte 27 mila giovani veneti; all’endemica condizione bellica costituita di ben sei campagne militari, che squassarono il Veneto dal maggio del 1796 al febbraio del 1814 ? Insomma, come disse il prof. Gullino, nel corso di un noto evento culturale, quale fu il “processo a Napoleone”, “dappertutto palazzi cadenti, dappertutto rovine, dappertutto miserie, indolenza, schiere di disoccupati mendicanti”. Ecco il “vento della rivoluzione francese”.
Che dire di più? Forse ricordare che valligiani e contadini si sono fatti tagliare a pezzi dai francesi pur di non rinnegare San Marco? Dicono qualcosa al “collaboratore” le Pasque veronesi, la più imponente e sanguinosa insorgenza popolare antibonapartista e filomarciana dell’epoca? Gli suggeriscono qualcosa le stragi di povera gente che i francesi ed i giacobini italiani perpetrarono nelle valli Sabbia, Trompia, Seriana e Brembana, dove non si voleva abbandonare il simbolo del Leone alato? E l’ignobile sacco di Salò? E le rivolte di massa nelle campagne venete del 1809? E le città dalmate che imposero ai nuovi dominatori austriaci la conferma dei podestà veneti alla guida delle loro comunità? E l’orazione di Perasto (Ti con Nu, Nu con Ti)?
Come convincerlo del fatto che Sarpi non fu uno storico (la scomunica di Paolo V per lui era cronaca, non storia, come testimoniò il pugnale che gli trapassò ripetutamente il volto sul ponte di Santa Fosca: stilo romanae ecclesiae, dirà ai suoi soccorritori) ma un giurista; anzi, il giurista, posto che ebbe l’incarico ufficiale di consultore in jure della Repubblica?
E dopo l’imbarazzo, la vena di tristezza. Con la messe di contributi che gli studiosi ci hanno donato, ritenevo che davvero le vergognose menzogne del Darù, già smascherate dal Romanin a metà dell’Ottocento, fossero relegate nel mondo della spazzatura storiografica, solo asservita ad un tentativo di dannazione della memoria storica di un intero popolo, quello veneto.
Ed invece, debbo purtroppo constatare che qua e là esse ricompaiono, non solo in qualche sprovveduto lancio privo di paracadute, ma, purtroppo, anche in pubblicazioni siglate persino da titolari di cattedra, che danno alle stampe spericolati opuscoli privi di citazione di fonti ma pervasi di livore ideologico. Vi è in ciò, tuttavia, un dato che induce ottimismo. Mi rendo conto che posizioni di tal fatta si attagliano perfettamente a chi elogia quell’operazione di violenza e volgarità politica che fu l’unificazione italiana, crassamente volgare laddove, per il tramite di un movimento massone – il risorgimento – pretese di azzerare le civiltà che l’avevano preceduta. Tanto fervore però, come taluno ha osservato, non si spreca contro un cadavere, ma si scaglia contro qualcosa che si percepisce vivo e che spaventa.
In pieno governo della Municipalità provvisoria (fantoccio francese la cui illuminata visione liberale del mondo comminava la pena di morte al solo nominar San Marco) comparve sui muri, tra le innumerevoli, un’immagine del leone marciano che così ammoniva: tu mi credi estinto, eppur son vivo !
Lorenzo Fogliata
Condivido completamente il pensiero espresso da Lorenzo Fogliata.
Lo spirito di San Marco vivrà per sempre perché é immortale. WSM