LA SCELTA DELLA LINGUA, PER LA NAZIONE VENETA.
Di Milo Boz
CO VOL DEONI (Veneto del IV secolo d.C.)
Scrivo questo intervento in italiano, per l’evidente motivo che voglio essere capito da tutti i veneti e anche da qualche veneto lombardo che mi legge. Questa mia affermazione di intenti, non esclude che la lingua veneta esista, e non goda di discreta salute. Già nel IV secolo d. C. noi veneti si parlava in veneto, che non era più da diverso tempo il venetico degli antenati, ma un latino corrotto, filtrato da questa antichissima lingua. Che a sua volta, doveva comunque avere delle variazioni locali, attestate anche dalla diversa maniera di scrivere certe lettere dell’alfabeto tra le varie città della Nazione. Ad Aquileia esiste una lapide, datata appunto IV sec. d. C. in cui la pietà di una donna, vedova del defunto, fece incidere: “CO VOL DEONI”, e cioé “quando vuole Dio (bisogna andare)”, e oggi un veneto di Grado direbbe la stessa cosa nella stessa maniera.
La lingua veneta, come tutte le lingue parlate (a parte la variante veneziana, già considerata lingua per il suo valore storico letterario dal fascismo, insieme al napoletano e al siciliano), ha una infinità di declinazioni, da città a paese, da valle in valle, se in montagna. Proprio questa constatazione, spinse i Padri Veneti, ovvero i governanti illuminati della Repubblica di Venezia, a non imporre, come del resto facevano tutte le Nazioni antiche, l’uso di una lingua uniforme e valida per tutti, che avrebbe comunque dovuto essere creata dal nulla. Ai loro occhi questo appariva come una limitazione delle libertà delle Nazioni che formavano il suo Commonwealth: uno stato che ti impone di parlare in un determinato modo, è sempre uno stato tirannico, come lo fu l’Italia che impose di cambiare persino i cognomi sloveni o tedeschi alle minoranze presenti in certe zone e vieta ancor oggi l’uso dei “dialetti” in certi luoghi. E badate bene che allora per Nazione, intendevano anche una sola città, che viveva mantenendo i propri statuti secolari.
Quindi la prassi, nata dalla consuetudine, era che la Repubblica scrivesse leggi e bandi in un buon “toscano”(subentrato al latino), la lingua letteraria comune alla penisola, con grande tradizione alle spalle, e se venivano pubblicate ad uso di altre etnie oltremarine, si stampavano con le traduzioni. Non potendo farlo per ogni paese e città dell’entroterra, si conveniva che la lingua toscana fosse un buon veicolo per passare le informazioni di carattere generale. Tuttavia, nei tribunali, i testi deponevano nella loro parlata locale e in genere così le deposizioni venivano trascritte. Così si andò avanti con pace e concordia di tutti, veneti, lombardi, greci e “illirici” fino al nefasto arrivo della idea di nazione portata dalle armate francesi. Il concetto di “eguaglianza” sottintende anche l’idea di uniformità del “cittadino”, non più accettato per come la tradizione e la storia lo aveva formato, ma idealmente “intercambiabile” l’uno con l’altro. Via le leggi locali, via le lingue locali, considerate ora “dialetti” a favore di una lingua ufficiale che doveva essere insegnata d’obbligo e parlata da tutti. L’insistere a voler parlare il proprio idioma minoritario, ora viene considerato un “attentato” alla integrità della Nazione e chi legge, non faticherà a capire che l’Italia unitaria di oggi è nata dallo sciagurato nazionalismo liberticida di impronta giacobina. Purtroppo ne siamo permeati tutti noi, di queste idee contrarie al vero spirito della Patria antica dei nostri Padri, quando reagiamo con fastidio, ad esempio, nel leggere che in Tirolo pretendono di riappropriarsi dei nomi originali delle località, italianizzati a forza all’inizio del ‘900. O proviamo imbarazzo nell’esprimerci in certi posti, con la lingua veneta per tema di passare per gente poco acculturata. O quando, noi veneti indipendentisti, pensiamo seriamente di far nascere una lingua artificiale che altro non è che un orribile “veneto di campagna” storpiato, comprensibile alla fine solo tra gli abitanti di pianura ma del tutto ostico da Feltre in su. Impariamo dalla storia, continuiamo a seguire le orme dei nostri Padri antichi e non ci faremo mai del male. altra cosa è batterci con forza, perché anche la lingua veneta locale sia permessa, come il sardo o il friulano, nei luoghi e assembee pubbliche e a scuola: dato che fa parte del nostro essere Veneti, dobbiamo tutelarlo al pari delle altre lingue storiche italiane.
Premettendo che ogni lingua è formata da diversi dialetti/varianti, (e quindi tutte le varianti vanno difese e valorizzate in quanto componenti della lingua), anche per il veneto come per tutte le lingue è necessaria una normalizzazione linguistica, ovvero regole comuni di scrittura decise e regolate da una istituzione apposita. Anche se la politica linguistica volesse essere quella di rendere ufficiale l’uso di tutte le varianti e non solo di una principale (come hanno fatto i catalani), si rende comunque necessario definire regole comuni di rappresentazione di queste varianti. Ad esempio, come si rappresenta il suono [z] in [roza]: rosa, roxa o roza? Oppure, manteniamo le preposizioni articolate o seguiamo l’esempio spagnolo (“dele” o “de le”?). Queste decisioni devono essere prese per poter ufficializare l’uso della lingua e insegnarla a scuola. E lo deve fare un’istituzione apposita che rappresenti gli interessi di tutte le comunità linguistiche venete. Questo si propone di essere l’Istituto Lingua Veneta (www.istitutolinguaveneta.org). Chiunque volesse sostenere o partecipare al progetto ci contatti attraverso il sito! WSM
I linguaggi usati (e sopravvissuti) entro i territori della Repubblica Veneta sono vari e diversi. Cito per tutti l’antico PAVAN, ricco di opere letterarie e teatrali rinascimentali, mantenuto in vita anche da un’associazione che per secoli ha celebrato il ricordo delle opere poetiche e teatrali del padovano Ruzzante.