LA “VIRIBUS UNITIS” AUSTRIACA AFFONDATA CON POCA GLORIA
Paolo Rumiz, inviato di Repubblica, ne ricostruì l’affondamento, da parte di un commando italiano, e a leggere la vicenda si dovrebbe provare solo imbarazzo, mettendosi nell’ottica della marina tricolore. La nave non batteva già più bandiera nemica ma era diventata parte della neonata flotta jugoslava.
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La baia di Pola sigilla un altro mistero. La “Viribus Unitis”, ammiraglia e vanto della flotta austriaca. La colarono a picco, a due passi dai moli, due guastatori italiani con una mina sotto la chiglia, alle ore 6.29 del 2 novembre 1918. Quando ci passiamo sopra, l’ecoscandaglio non sobbalza, del gigante è rimasta solo una lamiera nel fango. A Pola tutti ricordano quando, dopo il ?45, vennero gli ingegneri di Tito a spolparla per rifornire di ferro le acciaierie socialiste.
S’è salvata solo l’ancora; sta all’Arsenale di Venezia. Un trofeo con poca gloria, a rileggere gli eventi.
Ormeggiamo nella baia di Bagnole, e l’istruttore sub Aldo Verbanac ci racconta il giallo di quella notte. L’ammiraglio italiano Thaon di Revel manda i sub a minare il gigante. L’Austria è ormai sconfitta, l’armistizio imminente. I guastatori piazzano la bomba, ma quando riemergono sono catturati e portati sulla nave. A bordo hanno un triplice shock. Primo, i marinai nemici, essendo dalmati, parlano italiano.
Secondo, sulla nave c’è una gran festa, e i sub – “venite, amici italiani!” – sono invitati a partecipare. Ma la cosa più incredibile è che la nave non è più austriaca. Da poche ore Vienna l’ha regalata al neonato regno di Jugoslavia. I marinai sono quelli di prima, ma per loro la guerra è finita. Per questo fanno festa.
Come mai l’Italia non sa del cambio di bandiera? E se lo sa, come mai ordina l’operazione? I sub italiani, spiazzati, avvisano: filate, c’è una mina qua sotto. Ma nessuno ci crede, la ciurma è troppo allegra, la notizia inverosimile. Poco prima dell’alba i nostri lanciano l’ultimo allarme, dicono che manca poco al botto e si buttano in mare. Appena allora si scatena il panico, tutto l’equipaggio salta in acqua. Solo il comandante, che poveraccio è al suo primo giorno di servizio, sceglie di restare. E morire a bordo.
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Già, ma Venezia che c’entra? C’entra eccome. Pola fu la Venezia austriaca. Gli ufficiali della marina da guerra si spostavano in gondola nel porto e davano alle ciurme ordini con le parole-base in dialetto veneto. L’ammiraglio Wilhelm von Tegethoff, che era nato a Maribor – Marburg – in Slovenia ma aveva studiato marineria a Venezia, alla battaglia di Lissa del 1866 contro i Savoia, diede in veneto al timoniere Nane l’ordine di speronamento contro la corazzata “Re d’Italia” che aveva il timone in avaria. Urlò: “Dèghe drento, Nane, dèghe drento de prora”, dateci dentro di prua, e quando la nave italiana affondò con 600 uomini a bordo, si narra che dalle murate dell’ammiraglia “Erzherzog Ferdinand Max” si levò l’urlo “Viva San Marco!”.
Era da Lepanto che le ciurme aspettavano. Da trecento anni che i marinai dalmati e istriani – nucleo forte degli equipaggi anche sotto l’Austria – non salutavano un trionfo contro una flotta di intrusi nel “loro” mare. Già, perché quella non fu la vittoria dell’Austria contro l’Italia, ma dell’Adriatico contro il Tirreno, contro l’anima spagnola della flotta borbonica passata ai Piemontesi, e contro l’eterno nemico, la repubblica marinara rivale, Genova.
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