LODOVICO MANIN, l’ultimo Doge, la sofferenza quotidiana per la Patria perduta.
di Milo Boz, Veneto
Gli improperi del popolo disperato, contro di lui e tutti i nobili.
“Camminando per quelle strade, mi sentivo dire in faccia li maggiori improperi”.
L’angustia e il rammarico da me sofferto nel fatal cambiamento del Governo, anzi nell’annichilimento della Repubblica sono stati estremi e non concepibili se non da quelli che amavano il suo Paese, come lo amavo io, li quali per pubblica fatalità eran asai pochi; come lo ha dimostrato la fredda indifferenza con la quale molti vi si sono adattati, ma hanno anche cercato di essere impiegati nel nuovo Governo.
Parlo sempre di quelli che non avevano bisogno. A me poi oltreciò toccò di soffrire moltissimi dispiaceri, che mi son riusciti sensibilissimi. Moltissime persone, parte per il dolore d’essere privi delli loro impieghi, parte per essere diminuito il giro del contante per la mancanza della Zecca e per diverse altre ragioni, si trovavano in grandi angustie, diminuiti li lavori delle Arti, accresciuti di molti li lavori delle vittuarie, massime la povera gente risentiva li funesti effetti, e non potendo, né dovendo arrivare a conoscerne la causa, si scatenavano contro il passato Governo e massime contro chi, per sua fatalità, sosteneva la principal figura.
Tutto ciò produceva che, massime dalle parti di Cannaregio, passano alcun patrizio conosciuto si sentisse da molte persone caricare di villanie, come quelli che per avarizia si avevano lasciato corrompere e venduto il sangue dei poveri. Molto più e quasi ogni giorno ciò a me succedeva, e mi colpiva nel più vivo dell’anima; perché quantunque fossi affatto tranquillo nel mio interno e alle direzioni che avevo tenute, e quantunque mi fosse da altri resa giustizia, pure ero sensibilissimo che quella povera gente mi potesse creder capace di tali indegne azioni.
Camminando dunque come facevo spesso per quelle strade…la cosa arrivò a grado che passando un giorno per una corticella a San Marcuola, una donna conoscendomi disse: “Almeno venisse la peste, che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi, che ci han venduti, e che son cagione che moriamo dal freddo e dalla fame”.
Cosa che mi fece intirizzire e che non scorderò mai più.
Aggiungo questa annotazione di Giovanni Scarabello:
Nobile la risposta che dette a qualcuno che lo consigliava di passeggiare nei luoghi centrali di Venezia: E’ vero, in siti frequentati delle piazze io avrei delle riverenze esterne che niente mi indicherebbero la sincerità dell’interno. Negli altri luoghi mi insultarono, ma in confronto dell’affetto che esprimono per il governo che avevano e che pesa loro che sia terminato, obliando volentieri le ingiurie a me fatte, resto pieno di consolazione”. (Così si ricorda Don Sante Valentini nelle sue Piccole Memorie).
Pagine dolorosissime, ma piene di significato, per chi sa intenderle. L’atteggiamento del Patriziato di Venezia, dopo lo sfacelo del 12 maggio 1797, fu di costernato rammarico e grande amarezza, espressi per lo più in un cupo silenzio. Tuttavia, in testa il Doge N.H. Lodovigo Manin, tutti loro vissero questi tragici avvenimenti come una sciagura alla quale era impossibile far fronte con efficacia. L’ex Doge ha ragione a dire che nessun calcolo o interesse motivò l’incapacità di mobilitare e gestire una vera difesa militare all’orda napoleonica. Di oltre 1.200 nobiluominim solo 10 traditori, cioè lo 0.8% del Patriziato maschile adulto, accettò di entrare nella Municipalità provisoria. C’è chi sostiene che la nobiltà di origine lombarda avesse voluto svendere all’invasore francese la Patria, in cambio della conservazione dei loro possedimenti. Ma che sciocchezza è questa! E’ vero l’esatto contrario – perdendo la Patria, i Veneti Patrizi perdettero tutto, nè mai emerse che qualcuno avesse barattato alcunchè. In pochi decenni le casate nobileri veneziane si estinsero quasi tutte, erano vissuti per 14 secoli in funzione dello Stato e con esso morivano. I traditori vi furono, certo, ma erano pochissimi. La verità è che quella classe dirigente non capiva davvero il nemico che aveva di fronte. I Veneziani non capivano le trame massoniche, non capivano la Rivoluzine Francese, consideravano l’Illuminismo [lo chiamavano ‘le nuove idee di Francia’] una follia distruttiva, che non avrebbe mai consentito di formare Stati e Governi stabili. E su questo, dopo due secoli, dobbiamo pure dare loro ragione. Davvero incredibile l’atteggiamento [se non eroico, davvero forte e motivato] del N.H. Lodovigo Manin dopo il 1797, quando dice di preferire prendersi le parolacce del popolo veneto che lui ha sempre amato, piuttosto che avvicinarsi ai luoghi del potere… una lezione per noi Veneti di oggi, ormai assuefatti alla mentalità del servitore, sempre pronti al rancore contro chi è venuto prima di noi. Invece, per noi questa è una lezione importante, che ci sprona a combattere e a mostrarci degni di chi ci ha preceduti, soprattutto mettendo riparo con la nostra azione costruttiva [e non con ciarle e lagne] ai colpi del destino subiti quella volta.