IL FORNARETO E LA MEMORIA DELLA SERENISSIMA
Come si sparge letame senza pagare dazio
Di Paolo Mameli
Gli errori giudiziari ci sono sempre stati, ci sono e, purtroppo, e molto probabilmente continueranno ad esserci. Errare è nella natura umana. Lo è sempre stato. E la storia del Fornaretto, o meglio il pòvaro Fornaretto, come in genere lo si definisce qui in città, ne è un esempio lampante. Per chi tra voi lettori non ne conoscesse la storia, e penso ce ne siano ben pochi, la riassumo: un giovane fornaio, Il Fornaretto appunto – mentre sta andando al lavoro, trova per strada un bellissimo fodero di pugnale, ma di quelli proprio preziosi! Allora, anziché metterselo da parte, corre dalla sua morosa, una certa Annella che lavorava come serva in casa di Lorenzo Balbo, un ricco ed influente patrizio veneziano. E così un po’ tutti lo vedono con quell’oggetto in mano: beata ingenuità.
La morosa, che sembrerebbe avere un po’ di più sale in zucca, gli dice di riportarlo lì dove l’ha trovato e lui, mal volentieri, ubbidisce. Purtroppo, ma c’era da aspettarselo, nel posto ritrova sì il pugnale, ma anche un morto sulla cui schiena stava bene impiantato e che il giovane, essendo piuttosto buio, prima non aveva visto. Ed è qui che gli si attacca la sfiga: d’un tratto arriva un passante, poi un altro e un altro ancora. E tutti lo vedono con lo stiletto in mano e il cadavere poco più in là: basta fare uno più uno… Così lo consegnano ai Signori della Notte che se lo portano diritto in Palazzo Ducale. Ma la sfiga, lo sapete, quando si attacca, si attacca: il morto era un certo Guoro, un nobile che bazzicava casa Barbo, vero nido di serpi, e che a suo tempo aveva molestato proprio Annella.Due più uno…
Anche se le prove sono schiaccianti, il Fornaretto nega e quindi si decide di scioglierli un po’ la lingua con qualche tratto di corda. Il che accade puntualmente, e il poverino confessa tutto e di più. Risultato: condanno a morte per decapitazione, da eseguirsi in tempi brevi. Ma chi era l’assassino? Per farla breve, era proprio Lorenzo Barbo, il padrone di casa, che aveva scoperto Guoro a trescare con la propria moglie. Ma la macchina della giustizia è implacabile e ben presto il Fornaretto viene condotto tra le colonne di Marco e Todaro dove l’aspetta il boia con la sua scure affilata.
Nel frattempo, però, per tutto un insieme di fatti che non vi sto qui a narrare, si riesce a scoprire il nome del vero colpevole e un messo corre verso la piazza per dare la notizia prima che sia troppo tardi. E, se non c’è due senza tre, la sfiga colpisce ancora: il messo arriva sì in piazza, ma un attimo dopo che il boia aveva portato a termine il suo lavoro scorciando di una testa il malcapitato. Allora il Doge, per concludere degnamente la storia, dichiara che prima di ogni sentenza si debba pronunciare la fatidica frase; «Recordève del pòvaro Fornaretto!»
La vicenda è senza dubbio suggestiva ma, purtroppo, assolutamente falsa perché non posa su alcuna base storica: un fatto simile non si trova da nessuna parte, né nelle raspe, in cui erano registrate le sentenze della Quarantia Criminal, né nei registri della stessa. Il fatto è citato in una ipotetica lista dei giustiziati, compilata però tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo in cui compare un fatto analogo a quello descritto con protagonista un certo Piero Tasca, che si sarebbe svolto nei primi anni del ‘500. Il buon Tassini è andato a rovistare negli archivi e, a quanto pare, non ha trovato nulla e così pure il Molmenti.
Quello che, però, in qualche modo fa pendere fortemente la bilancia da parte del falso, è proprio una mancanza d’indizi, o meglio di un testimone, che nel nostro caso diviene una prova: Marin Sanudo. Già, il celebre diarista, colui che ha fissato nero su bianco ogni pettegolezzo e ogni fatto anche secondario accaduto a Venezia mentre era in vita. Non dice nulla. Nulla di nulla, nemmeno un accenno, un’allusione. E sì che un fatto simile, con tanto d’intervento fuori tempo massimo da parte del Doge, avrebbe dovuto essere piuttosto eclatante e il buon Marino l’avrebbe sicuramente annotato nei suoi Diarii.
La verità è che, probabilmente, è una delle tante leggende nere che sorsero dopo la caduta della Repubblica per creare discredito sull’ “amministrazione” precedente. E Francesco dall’Ongaro nel 1848 vi scrisse una fortunata pièce teatrale intitolata appunto “Il fornaretto di Venezia” che ebbe un ottimo successo tanto che, con l’avvento del cinema ci furono varie versioni create sia per il grande che per il piccolo schermo (irresistibile quella del mitico Quartetto Cetra per la “Libreria di Studio 1 ”). Risultato? Da una leggenda poco più che metropolitana, si è passati sempre più ad una leggenda vera e, qualcuno, l’ha presa per una pagina di Storia.
Il tragico è che, spesso, molte di queste leggende vengono presentate come verità, alcune volte in perfetta buona fede, altre semplicemente perché inavvertitamente si omette di dire che appunto di leggende si tratta. Poi, ma quelli sono casi estremi, ci sono quelli che volutamente travasano i fatti per rendere il tutto più misterioso o per totale ignoranza dell’argomento che hanno riportato tale e quale da qualcun altro che, a sua volta, aveva fatto copia-e-incolla da un altro ancora e così via.
Peccati veniali, direte voi. All’apparenza sì, dico io, ma solo all’apparenza. Finché si tratta di leggende, e così viene dichiarato dall’autore, va tutto bene, anzi benissimo: rimanere ingessati in un mondo di parrucconi che se non citi almeno cinque fonti bibliografiche non sei credibile, lo lascio a chi ama farsi male e vivere una vita grigia. Chiederei, piuttosto, di non dare per vero assoluto qualcosa che non si può verificare, come purtroppo fanno molti pseudo-storici che spesso vediamo in televisione su programmi dedicati al mistero che, con aria sibillina o atteggiamento da depositari della scienza universale sciorinano date e dettagli basati sul nulla (quando non sono volutamente ambigui).
E questo finisce col rovinare la piazza a tutti quegli storici autentici che passano ore e ore della loro vita a ricercare in archivio, ad analizzare testi, a verificare fonti. Anche se la polemica sulla neutralità dello storico, e sulla stessa figura di storico, è vecchia come il Cucco, l’unica cosa di cui si può essere certi è che uno storico – o perlomeno uno che si presenti come esperto di Storia – non può inventarsi quello che non c’è scritto da nessuna parte solo perché così gli fa più comodo. Di questo passo, ritornando alla “nostra” Venezia, divengono reali i prigionieri che “sospiravano” dando il nome all’omonimo ponte, il famigerato Biasio Luganeghèr che “coi fioi fazea sguazzatto”, ma anche il Diavolo uscito sotto forma di Scimmia, la vecchia che perse la scommessa del Ponte di Rialto (effigiata sul capitello del Palazzo dei Camerlenghi più di cinquant’anni prima dei fatti in questione), il terremoto di Roma, la fine del mondo del 2012.
Lo ripeto: non dico, e non dirò mai, che queste cose non si debbano raccontare, tutt’altro. Sono divertenti e, spesso, decisamente affascinanti: l’unica cosa che chiedo, anzi dovrei dire esigo, è che l’autore non bari per vendere qualche copia in più, ma sia onesto col lettore dicendo effettivamente che certe cose sono solo storie senza alcun fondamento storico, paragonabili a una bella fiaba o a un vivace racconto oppure che si dice così, ma per il momento non si sono trovate prove sufficienti ad avvalorare i fatti.
Il mio consiglio è quindi quello che, ogniqualvolta vi capita di leggere qualcosa di arcano, misterioso o leggendario spacciato per oro colato che riguardi Venezia, è sempre utile “recordarse del povaro Fornaretto” e della sua triste storia frutto di una reale, quella sì, ottima fantasia.
E allora sì: ci si potrà veramente divertire!
“la bocca che raccoglieva denunce anonime, vagliata da tre magistrati che en controllavano la sussistenza reale.”
Non guardavano mai le denunce non firmate!
Cara amica, mi mette nella penna cose che no ho scritto, mi pare… ho precisato solo che le denunce venivano vagliate da tre magistrati, l’anonimo riguardava il fatto che non serviva presentarsi davanti al magistrato di persona.
Caro amico, “anonimo” significa senza nome.
Grazie comunque.
Anonimo certo. Nessuno ti chiedeva il nome e potevi postare la denuncia firmata. Non ho spiegato bene, me culpa. Citavo dal libro di Edoardo Rubini (Giustizia veneta. prima edizione) che specificava meglio di quello che ho fatto io, circa l’obbligo della firma.
Ho capito, che era copiato, ma il senso è sbagliato, che non coincide con le regole, che esistevano.