LEPANTO: LA MADRE DELLE BATTAGLIE. 7 OTTOBRE 1571.
NON NE HO ANCORA TROVATO DESCRIZIONE PIU’ BELLA… E TERRIBILE. Questo è il mese in cui si ricorda il martirio del nostro Marc’Antonio Bragadin a Famagosta. Con la sua morte crudele fu d’esempio grandissimo a tutti i Veneti. Il Turco, dopo la batosta, non osò più sfidare l’Europa sul mare. Qualcuno lo spieghi a a certi storici come Barbero o Cardini che parlano di vittoria inutile.
Di Paolo Rumiz
Alba arancione dietro alle montagne. E’ la fine di agosto, ma per noi è l’alba del 7 ottobre. Domenica. Cielo pulito, prima bella giornata dopo giorni di freddo. Puntiamo su Itaca per ritrovare la flotta cristiana che ha sostato a Cefalonia. E’ già in navigazione, si è mossa di notte, ci sbarra quasi la strada. Forma una processione interminabile, punta a Nordest sulla terraferma tra l’isola di Kastos e le Curzolari. Le galere vanno solo a remi, hanno il vento contro. Si mettono sottocosta per prendere il nemico di sorpresa all’uscita del golfo di Patrasso.
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Gli ammiragli di Venezia combattono in prima linea, il vecchio Venier lavora di balestra, a capo scoperto, dalla prua della sua galera, Agostino Barbarigo muore trafitto da una freccia in un occhio dopo aver combattuto, diranno ammirati gli spagnoli, “tan valorosamente, que de ello abrà con razon perpetua memoria”.
Le due ammiraglie si avvistano, si cercano in quel labirinto di navi, remi, rottami, vogliono la disfida diretta. Ali Pashà promette la libertà ai suoi galeotti in caso di vittoria, Don Juan galvanizza la ciurma esibendosi sul ponte della “Galera Real” in una danza erotica, una “Gagliarda”, assieme a due gentiluomini. I quali, “mossi da giovanile ardore, iniziarono a ballare sulla piattaforma dei cannoni al suono dei pifferi” per liberare gli uomini dalle paure.
E i greci che fanno? Stanno a guardare lo spettacolo dalle rive? No, i greci combattono, molti sulle navi cristiane, ma in maggioranza su quelle turche. Non è solo per obbedienza. Si sentono bizantini e per loro il Sultano non è che l’erede di Bisanzio, la Roma d’Oriente. La rivalità greco-turca non è ancora cominciata. Nel sedicesimo secolo la vecchia ruggine verso la chiesa di Roma prevale ancora sulla paura dell’Islam. Nel secolo dei nazionalismi tutto questo sarà rimosso. I greci faranno come i serbi, giureranno di non aver mai servito – come invece fecero alla grande – nelle truppe ottomane.
Ma ecco, il vessillo cristiano sale sul pennone più alto dell’ammiraglia turca, la galera di Alì Pashà è presa. E’ il segnale che galvanizza la Santa Alleanza. Molto, a quel punto, si decide ai banchi dei rematori. I galeotti sulle navi cristiane, all’idea della libertà e del bottino, raddoppiano gli sforzi. Quelli sulle truppe ottomane, che sono in gran parte schiavi cristiani, si ammutinano. “Spezzate, schiavate e tagliate le catene con l’armi dè propri turchi tenevano nelle mani e si vendicavano di tante crudeltà fateli”. “Si vedea per le grande cortelate / sol busti, e gambe, brazze, e teste tagliate / e molti eran smembrati dalle crude canonate”.
Anche i turchi sono da tempo in mare. Sanno tutto dell’Armata avversaria. Qualche notte prima, una loro galea-spia dipinta di nero si è infilata, beffarda, nel porto di Messina per contare le navi della coalizione. Sono ancora invisibili, stanno uscendo dal golfo di Corinto, hanno in poppa un vento gagliardo che scende dal Parnaso. Galere costantinopolitane, barbaresche, siriane, greche di Negroponte, anatoliche, bulgare, di Rodi, Gallipoli, Alessandria d’Egitto. Il grosso dei rematori è cristiano. Prigionieri, messi ai ferri e destinati ad affondare con le navi. Obbligati quindi a combattere per vivere.