di Theusk
Nonostante le disposizioni del Governo che miravano a separare nettamente le attività scientifiche da quelle dei vari ciarlatani, nel XVI secolo Venezia si dimostrò con essi molto tollerante.
La maggior parte di questi veniva dall’oriente e il Molmenti racconta di tal
Marco Bragadin di
Cipro che si diceva in grado di
trasformare l’argento in oro.
Il Mamugná nacque nell’isola di Cipro tra il 1545 e il 1551e assunse il nome di Marco Bragadin in omaggio all’eroe veneziano. Quando la sua isola cadde in mano ai Turchi egli emigró con la famiglia a Venezia e qui inizió a frequentare il chiromante Girolamo Scotto il quale lo introdusse ai primi rudimenti dell’alchimia.
Nel
1575 troviamo il Mamugnà a
Firenze, alla corte di
Bianca Cappello ma, avendo in poco tempo contratto numerosi debiti in questa città, la dovette presto abbandonare e trasferirsi a
Roma. Con la raccomandazione della Cappello entró nell’
ordine dei Cappuccini e presentato a Papa Gregorio XIII, al quale con il tempo, spilló moltissimo denaro. Fu forse per questo motivo che, alla morte del Papa, egli fuggí dal convento per recarsi dapprima in
Francia e poi in
Inghilterra.
Intorno al
1588 eccolo apparire a
Lovere, sul Lago d’Iseo ma poco dopo il suo trasferimento alcuni soldati, per conto dell’Inquisizione, irruppero nella sua abitazione per arrestarlo. Si mise in salvo saltando da una finestra e riparando nel
Bresciano.
Da quelle parti egli esibí la sua disponibilità in oro e denari al punto che tutti iniziarono a credere ch’egli fosse davvero in grado di fabbricare l’oro.
Da parte sua, il frate sosteneva che quello da lui prodotto fosse un “
oro potabile perfetto” in grado di curare come una medicina e quindi fruibile per scopi terapeutici.
Affinché venissero provate le sue capacità, ogni tanto permetteva ad un ristretto numero di testimoni di assistere ad un suo saggio alchemico e, a detta di costoro, gli ingredienti usati erano semplicissimi: soltanto un po’ di mercurio a cui andava aggiunta una polvere segreta, e una sostanza molto simile alla cera.
Molti personaggi illustri iniziarono ad annoverarsi tra i suoi estimatori e i patrizi veneziani Nicoló Dolfin e Giacomo Contarini si attivarono affinché il Mamugnà venisse di nuovo accolto a Venezia il che avvenne il 26 ottobre 1589 dopo il voto favorevole del Consiglio.
Ritornato a Venezia, egli giuró fedeltà alla Repubblica e depositó presso la Zecca alcune copie della sua ricetta segreta. La Signoria mise a sua disposizione il Palazzo Dandolo della Giudecca dove il frate continuó la sua vita lussuosa.
Nella sua abitazione tutti potevano vedere oggetti d’oro e d’argento, lastre d’oro e, sparsi ovunque, sacchetti pieni di denari.
La sua fama si diffuse ovunque in Europa e persino Costantinopoli inizió a corteggiarlo.
La Serenissima lo volle immediatamente al lavoro ma egli continuava a procrastinare gli impegni presi e, poco a poco, le sue riserve auree diminuirono.
Persa la pubblica estimazione, iniziarono a molestarlo anche i creditori e i patrizi a schernirlo. Persino la poesia popolare si prese gioco di lui ed egli si eclissó da Venezia per riparare a Padova.
La Repubblica non fece alcun tentativo per impedire la sua fuga e così egli potè andarsene anche da Padova per recarsi in Baviera, alla corte del Duca Guglielmo V.
Qui si attivó per curare i malanni del Duca e allo stesso tempo gli promise la produzione di un notevole quantitativo d’oro ma, per iniziativa dei Gesuiti, si costituí in quel periodo un potente partito che mirava apertamente alla sua rovina.
Fu arrestato nel 1591, allontanato da Monaco e indotto a confessare la sua incapacità nel ricavare l’oro.
Venne condannato a morte ma la forca, prevista all’epoca per i truffatori, gli fu commutata, per grazia del Duca, nella decapitazione che avvenne il 26 aprile 1591 nella Marienplatz (la piazza del mercato) per mezzo di spada e davanti ad una folla enorme accorsa per l’occasione. Nel luogo dell’esecuzione venne in seguito eretta una forca rossa dalla quale scendevano alcune corde dorate a simboleggiare il motivo della condanna.