di Thuesk
Venezia, con un decreto di Pietro IV Candiano del 960, fu il primo stato al mondo ad abolire la schiavitù cristiana ma questa pratica, tanto comune in Europa non cessò dall’oggi al domani .
Anche a Venezia lo schiavo era un lusso e la sua presenza, nelle case delle famiglie patrizie più agiate era sí un’ostentazione di ricchezza ma anche una necessità dinanzi all’esodo dei servi che trovavano in altri settori più ricche opportunità.
Gli schiavi accudivano ai più umili servizi domestici ed erano spesso a contatto con i bambini della famiglia che servivano. La loro condizione non era molto dura sebbene anche a Venezia “schiavo” significasse dominio dell’acquirente, che lo considerava perciò “res sua propria”.
Ad essi venivano riconosciuti certi diritti: adivano il tribunale comune, avevano famiglia propria e facoltà di obbligarsi, di acquistare e di possedere.
In pratica sostituivano i servi per diminuire il carico e le spese di locazione di domestici liberi e per questo motivo nei possessori non erano lievi le cure che avevano per questa merce umana poiché ciascun schiavo rappresentava un capitale che, per essere utile e fruttifero doveva innanzitutto esser garantito dalla buona conservazione della persona in cui si aveva investito. In primis veniva tutelato l’onore della donna, sia perché da esso ne dipendeva il valore venale, e sia perché nei veneziani rimase sempre vigile lo spirito dell’umana solidarietà.
La consuetudine concedeva al padrone di esercitare, contro chi avesse usato violenza ad una schiava, la medesima azione di tutela attribuitagli per l’onore dei propri famigliari e non mancava nemmeno una legge per tutelare gli schiavi contro le offese “di lieve momento“; ne diamo un curioso esempio: nel maggio del 1372, un Antonio Avona e un Jacobello pellicciaio si presero lo spasso di punzecchiare di nascosto con un lungo ago le schiave che si recavano al vespro. Il primo venne condannato a tre mesi di prigione, Jacobello a due.
In quanto posto a frutto, lo schiavo però doveva essere riguardato sotto l’aspetto della continua e diretta utilità; egli era utile finché era giovane, invecchiando fruttava sempre meno e quindi l’affrancazione riusciva più facile e sollecita.
Come ho più volte sottolineato era scontato che l’interesse materiale fosse ben presente ma in generale esisteva un legame affettuoso tra schiavo e famiglia che non lo vedeva condannato ad obbedire ciecamente e supinamente al padrone ma gli veniva riconosciuta una giusta estimazione del suo valore personale. Inoltre il contatto tra servi liberi e servi schiavi, conviventi sotto il medesimo tetto faceva spesso nascere comunioni di sentimenti che facevano ai padroni preferire i servizi degli schiavi fedeli a quelli dei maligni servitori e fantesche sempre loquaci e pettegoli (Molmenti).
Dall’affetto al prezioso dono della libertà personale il passo era breve. Sempre più frequenti si fecero le “francationes causa mortis” (testamenti), che liberavano lo schiavo , o atti tra vivi mediante “cartulae libertatis”.
Altro genere di trattamento veniva però riservato agli schiavi comprati da privati slavi e saraceni, come tartari, russi, saraceni, e bosniaci. Che venivano rivenduti dai proprietari nonostante i divieti e “graves poenas contrafacientibus” (come scrive Andrea Dandolo), al pubblico incanto a San Giorgio e a Rialto.
La Chiesa, nonostante tutte le condanne minacciate, lasciava correre e la pratica del notariato veneziano che così a lungo lasciò agli ecclesiastici questo delicato ufficio, metteva costoro in contraddizione con la loro coscienza ponendoli al punto di partecipare a quel traffico inumano che i canoni dei concili e le disposizioni curiali severamente proibivano.