Un po’ di note storiche sull’avventura di Cleonimo nella Venetia. Padova “uber alles” ?
Di Edoardo Rubini.
Spetta a Lorenzo Braccesi il merito di aver riportato alla ribalta, in anni non lontani, la remota vicenda adriatica dello spartano Cleonimo, esautorato dalla successione al trono e venuto, nell’anno 302/301, a guerreggiare con i suoi prodi in terra italica (veneta in particolare). Intrigante già nel titolo – L’ avventura di Cleonimo (a Venezia prima di Venezia), Padova 1990 – il libro di Braccesi si rifà anzi tutto alla pagina di Livio (10. 2. 1-15) per raccontare la sfortunata campagna italiota (probabilmente la seconda) del principe lacóne: ovvero, precisa lo studioso, nella memoria dell’antica storiografia «il primo navigante che avvisti le acque di Venezia al di là di un esile cordone sabbioso delimitante la laguna (l’arenile del Lido?), il primo condottiero, inoltre, che trovi sicuro ormeggio per la flotta nel porto fluviale del Medóakos (l’approdo di Malamocco?), il primo aggressore straniero, infine, che di qui risalga il Brenta per predare in territorio patavino» (p. 11).
Connessa all’approdo veneto di Cleonimo, quindi, è la «prima fotografia della laguna di Venezia nel più ampio contesto di uno scenario storico di respiro adriatico; offertoci da un autore, come Livio, ottimamente informato perché nativo del luogo. Egli, narrando del combattimento contro Cleonimo, celebra anzitutto la gloria della sua Padova, ma parallelamente assegna al fatto d’arme il ruolo di primo accadimento storico consumatosi nelle acque della laguna di Venezia, e come tale meritevole di essere registrato in una historia rerum gestarum» (p. 12) monumentale come la sua. Ecco, in brevissimo compendio, i fatti secondo lo storico padovano.
Chiamato in aiuto dai Tarantini, il condottiero spartano giunge in Adriatico, sbarca sulle coste dell’Italia e conquista senza difficoltà la città di Turî, nel territorio salentino; immediatamente dopo però, con un sola battaglia, viene sconfitto e ricacciato sulle navi dal console Emilio, giunto prontamente a fronteggiarlo con le invincibili legioni romane. A stare per altro a certi annali (puntualmente richiamati da Livio) lo stesso Cleonimo, atterrito alla vista dello schieramento romano al comando, questa volta, del dittatore Giunio Bubulco, s’imbarca a precipizio e prende il largo.
Ma – per ulteriore sfortuna del malcapitato Lacedemone – le navi vengono sospinte in mezzo all’Adriatico dalla furia tempestosa dei venti, costringendo Cleonimo, per paura vuoi delle coste importuose dell’Italia vuoi, sull’altra sponda, della selvaggia pirateria di Illiri, Liburni e Istri, a puntare direttamente verso le spiagge dei Veneti.
Così dunque Livio. Eppure – come rileva lo stesso Braccesi – Cleonimo si presenta aureolato della fama di un «comandante di ventura addestrato alla disciplina militare spartana, provato alla guerra e rotto a ogni insidia» (p. 34); eppure – a stare alla divergente testimonianza di Diodoro Siculo (20. 104. 2) – il principe spodestato viene in Italia «trasportando su navi tarantine cinquemila mercenari assoldati con argento tarantino.
Altrettanti ne arruola poi a Taranto, sempre a spese della polis, mentre a completare la sua armata concorrono anche, in forma ingente, fanti e cavalieri della milizia civica» (p. 20); eppure, sempre nelle parole di Diodoro (104. 4), Cleonimo può vantare la conquista (o almeno il controllo) della piazzaforte ionica di Corcira – isola che «non solo è ponte obbligato per ogni relazione fra Grecia e Magna Grecia, ma è vero e proprio trampolino di lancio per qualsiasi impresa in area adriatica, tanto circoscrivibile a interessi di natura commerciale o coloniaria quanto, a maggior ragione, riferibile ad appetiti di carattere egemonico o imperialistico» (p. 20). Ciò non ostante, il pavido Cleonimo liviano o viene sconfitto in quattro e quattr’otto dal console Emilio o fugge terrorizzato davanti a Giunio Bubulco, s’imbarca in gran furia e, in balìa dei marosi, giunge a fatica all’approdo veneto, seguendo oltre tutto «un’inconsueta rotta d’altura» (p. 25).
La questione, evidentemente, non è di facile (possibile?) soluzione. Ad ogni modo, come davvero stiano le cose esula dagli interessi di Livio, per il quale un solo dato è importante: l’approdo dell’ellenica armata ad litora Venetorum e il suo successivo, faticoso inoltrarsi sulle correnti del Meduacus Maior (o Medóakos) – attuale Brenta.
In realtà, solo una parte della flotta straniera – le imbarcazioni di minore stazza – è in grado di risalire un corso d’acqua poco profondo e per giunta infestato di pericolosi bassifondi. Con essa Cleonimo raggiunge tre villaggi agricoli di area patavina, li mette a ferro e a fuoco, fa razzia di uomini e di bestiame; si spinge poi, praedandi causa, nell’entroterra, lasciando le imbarcazioni sostanzialmente indifese, o al più presidiate da un pugno di armati. Ha quindi luogo lo scontro tra Lacedemoni e Patavini, prontamente accorsi in difesa – anche se, forse, già impegnati sul fronte gallico: non è da escludersi infatti che, a seguito dell’incursione di Cleonimo, Padova si ritrovi presa tra due fuochi, Galli e nemici d’oltremare (con l’aggravante della, almeno parziale, origine celtica degli stessi mercenari al soldo del principe). Un’ipotesi, è evidente, destinata a rimanere tale, anche se sostenuta vuoi dall’esplicita segnalazione liviana (semper autem eos in armis accolae Galli habebant, 10. 2. 9) vuoi dalle stele patavine, non di molto posteriori, con scene di Celtomachia.
Allo stesso modo, destinato a rimanere semplice ipotesi il vero movente della spedizione di Cleonimo: il quale potrebbe senz’altro essere il progetto (il sogno?) di un «impero marittimo su un’area che, già nella prima età ellenistica, appariva sempre meno periferica nel nuovo assestamento degli equilibri di potenza del mondo mediterraneo» (p. 86). Su questo punto però – sottolinea Braccesi – il silenzio di Tito Livio è «totale, quasi malevolo e finalizzato intenzionalmente a recidere ogni segmento conoscitivo che per noi, concettualmente, possa costituire elemento di raccordo con un più articolato scenario operativo e strategico. Padova e solo Padova!» (pp. 82-83). Ecco allora perché lo scontro in terra padana – per altro non attestato da ulteriori fonti né confermato da evidenze archeologiche – assume presso Livio (ma già forse nella sua fonte – magari un antico cantare popolare) i toni di un epico conflitto, culminante con la misera, ingloriosa fuga degli invasori sulle poche navi superstiti (appena un quinto della poderosa flotta) e la consacrazione delle armi sottratte al nemico nel tempio padovano di Reitia (in aede Iunonis veteri fixa, 10. 2. 14).