TRAU’, FUGA DI MEZZANOTTE
PAOLO RUMIZ l’ho amato molto, come scrittore “in barca a vela” sulle tracce della grandezza di Venezia e del mondo che governava con saggezza unica. A parte qualche sua sbandata “radical chic” (tipo “a Lepanto hanno perso tutti” ) mi ha aiutato a comprendere il mondo adriatico multiculturale, che i fascismi e i comunismi del ‘900 hanno poi distrutto. Una perdita immane per la civiltà. Allacciatevi le cinture.. e leggete. Traù viene considerata una delle città veneziane più belle e meglio conservate dell’intera Dalmazia. Secondo l’autorevole critico Bernard Berenson poche città al mondo annoverano tante opere d’arte in così poco spazio.
Fuga di mezzanotte da Traù, con prua su Lesina e a poppa una gagliarda brezza di terra. Con quel vento, tutte le galee di San Marco ci veleggiano accanto, silenziose. Filiamo sotto le stelle, all’inglese, senza aver visto la prima, grande reliquia di Lepanto. Una preda, anzi: la polena turca fissata sopra un portale della città vecchia. C’era troppa gente, orchestrine, chincaglierie, motori surriscaldati nell’afa. Ma il colmo era un’agenzia che organizzava gite a Mostar e al suo “fascino d’Oriente”. Tutto dimenticato: ponte abbattuto, bosniaci traditi, case musulmane fatte saltare in aria.
Via dalle città, via dalla terraferma, Spalato compresa. D’ora in avanti, solo mare. Capitan Erni dorme, Anna pure, resto a poppa col bravo Bojan alla barra. E’ la mia prima notte in barca a vela. Le luci di Traù spariscono dietro un promontorio. Meglio tornarci in altri momenti, un viaggio è fatto anche di rinunce. Traù, le mura medievali, una grande storia greca alle spalle, una gran posizione tra la terraferma e un’altra isola. Leggo che i leoni in marmo della cattedrale sono i più feroci della costellazione serenissima nel Mediterraneo. Hanno la sensualità dalmatica nella carne.
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In notti simili il sonno non ti sfiora nemmeno. E poi c’è troppa storia in questo viaggio. Troppo da raccontare. Senti che troppo ti sfugge di mano, che non basta un libro di bordo per dare l’idea della complessità che Venezia (e poi l’Austria) seppe magistralmente governare su questo mare. Per esempio Sebenico, tagliata fuori dalla rotta. Niccolò Tommaseo vi scrisse il primo dizionario della nostra lingua nazionale.
Sì, è così: gli italiani parlano la lingua sistematizzata da un dalmata. Ma lo stesso fece, su questo mare, Ivan Gundulic – detto Gondola – con il croato. E lo scultore Juraj Dalmatinac altro non era che Giorgio Orsini, veneziano naturalizzatosi sull’altra sponda.

il magnifico Leone nella loggetta, scalpellato dai titini negli anni Trenta, come simbolo fascista. Pazzesco.
Quella era Europa, altro che oggi. I primi poemi croati si stamparono a Venezia già nel ‘500. Fu una stamperia veneziana in Montenegro che alla fine del Quattrocento fece il primo libro in serbo. I cartografi slavi andavano a Venezia (e poi a Vienna) a lavorare. Vlaho Bukovac, pittore croato dell’Ottocento, si chiamava Biagio Faggioni. Sotto quelle selvagge montagne, la costa produceva cultura. Il trilinguismo era diffuso, si parlava perfettamente croato, italiano e latino. Fu in latino che Marko Marulic tradusse Petrarca nel Quattrocento. Dominko Zlataric divenne rettore a Padova e traspose il Tasso in croato. Dante si mandava a memoria.
I fascismi distrussero tutto questo. Nel “secolo breve” l’Italia dichiarò gli slavi “allogeni” e inventò la superiorità della razza. Poi venne ricambiata con gli interessi. I partigiani jugoslavi scalpellarono i Leoni di Venezia come antenati dei fasci littori. Poi gettarono la gente nelle foibe.
Tanti non sanno che l’atroce idea venne, prima della guerra, a un ministro del Duce. “La musa istriana – scrisse elegantemente costui, Giulio Cobolli Gigli – ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria”. Com’è corta la memoria delle Destre.
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La barca sonda un’immensità planetaria, lo Scorpione brilla all’apogeo della parabola, l’ombra delle isole si ingigantisce. Di notte sembra di andare molto più veloci, tutte le proporzioni cambiano. Un traghetto illuminato si infila tra noi e un isola, sembra che ci venga addosso, che non ci sia spazio fra lui e la scogliera. Invece no, il gigante passa senza problemi, rimpicciolisce, svela le distanze vere, di gran lunga superiori.
Proprio per questo, una volta, la descrizioni dei portolani contavano più delle carte. Era come leggere uno spartito musicale. Cose così: “Vai per tre quarte a levante et scuopre la ponta de Scarda ma no la pasar et va per tramontana et seghue el pelagho de Jadra sempre tenendo a maistro guardandote da vento de bora si mai lincontrasse e de lungi vedrai Jadra citade ch’a bon porto dal canto del Bocagnazzo…”.
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le vie medioevali di Traù
Bojan secende sottocoperta, mi lascia il timone. Dentro, la barca è piena di fiochi lumini, svela ogni segreto delle sue strumentazioni elettroniche. Radar, pilota automatico, misuratore di direzione e velocità del vento. Anemometro, ecoscandaglio, indicatore satellitare della posizione, tachimetro, bussola, radio vhf, E poi ancora motore salpa-ancore, frigorifero, radio, cucina, doccia calda, luci varie di posizione.
Ma con le stelle, tutta quella roba non serve. La rotta si segue guardando il cielo, come al tempo dei fenici. “Come fai a orientarti?” chiese Gneo Pompeo, dopo la sconfitta di Farsalo, in una notte di brutti pensieri al timoniere della nave che lo portava in Egitto, dove sarebbe stato ucciso. La scena è narrata da Lucano nella “Pharsalia”. Il pilota mostra alcune stelle, dice che devono sempre stare sopra il pennone. Poi indica Canopus. “Quando è a quell’altezza – spiega – so che sto entrando nel golfo della Sirte”.
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L’ombra di Brazza, immensa. La più selvaggia, montuosa, segreta isola della Dalmazia. L’unica, anche, senza città. Il cielo vi è così pulito che vi funziona uno dei più antichi osservatori astronomici d’Europa. Oggi, al suo interno, Brazza riproduce lo scontro tra costa e montagna che avverti drammaticamente in terraferma. I veneziani consentirono ai bosniaci in fuga dal Turco di trasferirsi qui, e ancora oggi – mi spiegò Giacomo Scotti, instancabile narratore di questi mari – i villaggi mantengono i dialetti dei paesi di provenienza nel Continente.
In Sicilia, Grecia, Albania o Dalmazia, la gente dell’interno ha una paura atavica del mare. Il mare porta invasioni, nemici, rapine, pestilenze. Il Mediterraneo, scrive Fernand Braudel, è un mare di montanari: anche le popolazioni adattatesi alla navigazione hanno quella memoria alle spalle. Lo dicono molte parole marinare mutuate dal mondo pastorale. Baia si dice “Valle”, stretto diventa “Vrata”, cioè porta. Porticciolo è “Mandracchio”, dal greco “Mandra”, gregge che si raduna al chiuso, al sicuro.
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Manca poco all’alba, una grande pace a bordo. All’orizzonte, poco oltre Lesina, già si vedono le mille baie delle isole Spalmatori, uno dei grandi approdi “tecnici” delle galere sulla rotta d’Oriente. A bordo siamo in quattro, numero ideale. Ma quando si è in troppi, la barca può diventare stupida come una camerata di caserma. Noi che abbiam fatto la naja obbligatoria lo sappiamo: l’effetto-caserma scatta quando la coabitazione in poco spazio ti obbliga ad abbassarti al livello del più idiota.
Ma una volta era peggio, da morire. Frate Felix Faber viaggiò su una galera alla fine del Quattrocento e scrisse: “Ogni pellegrino ha accanto al letto un orinale di metallo o terracotta nel quale deposita tutto quanto crede, ma siccome il luogo in cui si dorme è affollatissimo e buio, capita di frequente che, nel continuo viavai della gente nell’oscurità, qualche vaso si rovesci causando un gran fetore e conseguenti risse… Ma i cattivi odori di corpi degli uomini, di latrine, di sterco, di urina, di formaggio putrido o di cadavere, sono aromi in confronto al peggiore di tutti, cioè l’odore di sentina”.
“Ogni rifiuto – leggo a Bojan divertito – può finire laggiù e marcire per chissà quanto tempo. Non è che tolga l’appetito o faccia venire il mal di testa, solo che esso rimane per sempre diffuso per tutta la nave. Per tutta la galea infieriscono parassiti, mosche e topi che fanno disastri ma spariscono chissà dove al primo alito di vento. E quando torna la calma ricominciano”.
(14 agosto 2004) La Repubblica.
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